“Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra, ancora riviviamo la tua…”
Iniziano così i versi della celebre poesia “La bambina di Pompei” di Primo Levi, scritta all’indomani di una visita alle rovine della città seppellita dalla lava e la visione di un calco con una bambina che cerca di abbracciare la madre e salvarsi dalla catastrofe in uno straordinario processo di identificazione nel dolore umano.
E ancora risuonano le parole dello scrittore napoletano Luigi Settembrini dopo l’invenzione del metodo dei calchi pompeiani utilizzati da Giuseppe Fiorelli all’indomani della possibilità di far rivivere attraverso le forme assunte negli ultimi istanti dai pompeiani, vittime dell’eruzione del Vesuvio del 79.d.C.: “Finora si è scoverto templi, case ed altri oggetti che interessano la curiosità delle persone colte, degli artisti e degli archeologi; ma ora tu, o mio Fiorelli, hai scoverto il dolore umano, e chiunque è uomo lo sente”. Così viene definita l’impronta del dolore, cercata ogni anno da milioni di visitatori in uno dei luoghi più visitati al mondo, Pompei, che rappresenta il suo insegnamento umano più grande, di inestimabile valore per tutta l’umanità di fronte all’inesorabile ed impellente sopraggiungere della catastrofe.
Trovo una convincente analogia tra quei calchi di Pompei tanto ammirati dal mondo intero e i corpi dei senza fissa dimora che incontro lungo le strade della mia città, con una differenza, che si tratta di corpi ancora vivi, che respirano, a volte con difficoltà, di persone che dichiarano la loro urgenza di aiuto a tutti, ancora salvabili, ma il cui richiamo o fascino, ahimè, risulta totalmente diverso.
Anzi mi sembra addirittura di vivere un senso di sprofondamento, ogni giorno in una passività cronica, senza fine, sempre più dilagante, dove la società non vuole e non può più farsi carico di quelli più sfortunati, disperati, incapaci di essere autosufficienti, affrettandosi a liquidarli con giudizi del tipo: tanto in fondo non fanno niente per cambiare la loro condizione di indigenza, degrado psichico e corporale; è uno scempio che siano proprio qui nei luoghi più belli della città, dove una visione cinica spietata e barbarica prevale, portandosi via secoli di lotte e conquiste per i diritti umani, la solidarietà, lo stato sociale, condizione elevata dello spirito umano, minando subdolamente ogni senso di appartenenza alla razza umana. Certo è sempre stata dura essere un dio e risolvere tutto, ma negli ultimi tempi lo è anche solo essere semplicemente umani offrendo loro un semplice aiuto.
Il cattivo odore che spesso accompagna la visione o meglio l’inciampo in queste persone abbandonate ai margini della società, mi fa ritornare alla crudezza di ogni uomo e del suo corpo, che è fatto di sangue, piscio ed escrementi, oscuro lato della sua esistenza corporale, di essere degradante o sublime, in ogni caso fatto di materia in continuo cambiamento e purtroppo disfacimento.
Mi fermo a riflettere sulle sensazioni poco edificanti che ogni volta porto a casa, senza aver fatto altro che girare lo sguardo dall’altra parte: inadeguato senso di impotenza, forse sollievo di non trovarmi nella loro condizione, attraversare l’abisso di voler ignorare le loro ragioni o disgrazie, tanto anche le mie non scherzano, la vita è difficile per tutti e ogni ragionamento che avvalora il più bieco individualismo, ormai credo comune, imperante a cui tutti sembriamo dover aderire, semplicemente per cercare di sopravvivere alle incombenti catastrofi che ci circondano con la scomparsa ormai di una visione collettiva dello stato delle cose, del bene comune, e soprattutto il non considerare che i nostri privilegi si basano sempre più sullo sfruttamento e sulla pelle altrui , Colonialismo docet…
Ma ovviamente le cose non possono più proseguire in questo modo, l’individuo senza la sua partecipazione attiva alla società a cui appartiene diventa un rifiuto, un emarginato, un semplice numero anonimo e, solo nei casi migliori, un asceta o un artista incompreso. La società umana in quanto tale ha il dovere morale di non escludere nessuno e tanto meno emarginati e reietti, i cosiddetti ultimi della terra. Prendo consapevolezza quindi che, se io continuerò in questo modo, diventerò un perfetto e certificato esempio di umanità perduta, con esigue speranze di sopravvivenza, sempre più chiuso nel labirinto senza uscita in cui ci siamo cacciati, inseguendo il mito della ricchezza e soddisfazione della felicità personale, sempre più in un’illusoria, effimera partecipazione al benessere ipertecnologico collettivo ma completamente incapaci di guardarci veramente allo specchio di cosa siamo diventati. Proprio come in queste illuminanti e nauseabonde occasioni.
È il nostro rapporto con la fine, ovvero la morte, la catastrofe impellente, con la nostra e l’altrui sofferenza che sembra sia diventato un inciampo, un rallentamento ai ritmi, che il nostro vivere contemporaneo, impone, sempre più frenetico ed automatizzato, dove sembra esistere la sola regola della competizione e del profitto, che rende precario ogni rapporto umano ed ogni aspettativa di futuro.
Le immagini che quotidianamente invadono i media – fatte di guerre, profughi, migranti, devastazioni catastrofiche – hanno un effetto narcotizzante sui i nostri sentimenti e le nostre reazioni, l’overdose di immagini e disastri ha come effetto la costante e subdola fuga dalla realtà, piuttosto che innescare un effetto di adeguata solidarietà e partecipazione attiva al miglioramento delle condizioni globali e collettive di tutti, educa alla fuga da un pensiero sempre più urgente di considerare che il male di uno è il male di tutti, dove in questo processo le risorse energetiche, alimentari, economiche, sono sempre meno. Evidente certezza che stiamo per estinguerci e che prevale il motto: si salvi chi può; invece di affrontare la crisi tutti insieme.
Forse abbiamo bisogno di guardarci negli occhi negli ultimi istanti delle nostre vite come la bambina di Pompei, in un solo ultimo forte abbraccio, uniti da qualcosa di invisibile, capace di farci vincere la paura della fine, della catastrofe e comprendere forse che siamo fatti di comune sostanza, sperando per questo di diventare altro insieme.
Quando mi è successo con mia madre, il calore della sua mano nella mia e lo sguardo dei suoi occhi fino all’ultimo istante della sua vita mi parlavano di questo, di questa speranza, di non avere paura, paura della fine perché insieme potevamo essere altro…
Mi piace per questo pensare che in una notte nera, senza luna, una madre, davanti al fuoco parlava alla propria bambina da dove venivano gli uomini, la loro origine comune: Polvere di stelle, diceva, caduta da chissà quali sogni dell’universo, in un tempo lontano e che non erano soli, insieme se volevano, potevano diventare luce, capaci di illuminare l’oscurità, forse solo una favola capace però, di allontanare, col suono delle sole parole, strette in un abbraccio le paure invisibili, striscianti, aspettando il sopraggiungere della luce del domani. Un domani ancora tutto da illuminare.
La speranza di ciascuno è la nostra, grazie per ciò che le tue parole inducono a riflettere
Bellissima riflessione, Antonio, ispirata dalla nostra storia. Restiamo uniti.
Ciascuno di noi ‘societa’, ‘comunità ‘, può rssere di aiuto, sviluppare una coscienza civile può aiutare e aiutarci a cercare di risolvere o attenuare il disagio che alcuni di noi umani provano, le possibilità esistono, ma è utile uscire dal guardare se stessi e sentirsi parte di un tutto che comprende noi.
Prezioso Antonio Sacco.
Grazie.
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❤️
Spostiamo l’attenzione sulle persone, non sulle cose: dare nutre l’anima, il cuore, il pensiero.
Abito in un paese della Sicilia e anche qui trovo molti extracomunitari davanti ai supermercati. Ognuno da il prezzo del carrello ma non li guarda neppure sa i loro nomi e da dove vengono. Io lo faccio ma è poco forse per placarsi la coscienza. È un problema che da soli non si può risolvere
Bisogna pensare alla madre Terra…il capitalismo sfrenato nn ha più via di uscita….no all’individuazione e sì al senso di comunità…le catastrofi devono insegnarci a riflettere…
Caro Antonio condivido il tuo articolo ed aggiungo che bisogna impegnarsi singolarmente nelle piccole cose di ogni giorno.la presa di coscienza collettiva oggi molto carente rispetto agli anni passati è dovuta all’uso delle armi di distrazione di massa che impediscono la visione vera della realtà. Gli uomini e le donne di questo pianeta appaiono più attratti dalla superficie che non dalla sostanza delle cose.Allora bisogna oggi più mai controinformare partendo dal passato come hai fatto tu nella tua doviziosa esposizione