Il sud, tra stereotipi e potenzialità

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Il porto di Gioia Tauro (Fonte: Wikipedia)

In politica è sempre stato più difficile, se non impossibile, togliere a chi ha già, piuttosto che dare a chi non ha mai avuto. Purtroppo il nostro bistrattato sud è stato sempre più vittima di questa logica, che si è radicata negli anni fino a istituzionalizzarsi con l’avvento della Lega e il colpevole opportunismo della sinistra, che l’ha portata a guardare acriticamente a quei settori della società che le garantivano una posizione di potere.

Se ne torna a parlare oggi, guada caso, per la destinazione dei fondi del sospirato PNRR. La monotona litania e i luoghi comuni che da sempre accompagnano questa parte d’Italia sono sempre gli stessi dall’epoca dell’unità: il sud è camorra, mafia e ‘ndrangheta, spreco, reddito di cittadinanza, pizza e mandolino eccetera eccetera… Senza pensare che il più delle volte l’affermazione dei luoghi comuni è un modo per confermare e rafforzare un alibi che conviene solo alla parte ricca del Paese, che ha tutto l’interesse perché le cose non cambino, anzi con la richiesta dell’autonomia differenziata migliorino solo a proprio vantaggio.  

La richiesta leghista di spesa in loco della fiscalità (in contrasto con la Costituzione) deriva infatti dalla maggiore capacità di produrre reddito, dovuta alla maggiore occupazione in quelle regioni. Il sud infatti con una popolazione di poco più di 20 milioni di abitanti (se fosse autonomo, sarebbe il quinto paese della UE per dimensione demografica) ha solo il 30% di occupati, contro il 50% dell’Emilia-Romagna. Nonostante ciò si pagano più tasse (pur essendo queste in proporzione al reddito) per effetto di quelle locali, che sono slegate dal reddito: al danno la beffa! Meno occupati, meno reddito, più tasse! Perciò la UE ha stabilito che i fondi comunitari vanno assegnati in base a tre parametri: popolazione, occupazione, reddito pro capite. Ecco perché all’Italia è stato assegnato un importo così elevato, 191,5 miliardi di euro, rispetto agli altri paesi.

A questo punto l’interpretazione degli ultimi governi a trazione leghista ricorda il famoso paradosso di Trilussa: se tu mangi un pollo e io niente, statisticamente abbiamo mangiato mezzo pollo a testa… Ed è quello che succederebbe, se non venissero definiti i tanto citati LEP (livelli essenziali di prestazione) ossia il reale fabbisogno di una popolazione, che si è basato sempre sulla spesa storica: ossia se un comune non ha mai avuto un asilo nido, ad esempio, vuol dire che non ne ha mai avuto bisogno né fatto richiesta, quindi zero risorse per finanziare questo servizio pubblico. E così è successo per la sanità e la mobilità, in una logica dove si continua a premiare chi ha avuto i mezzi e la capacità di spendere di più in passato.

Inoltre, non si può omettere l’incapacità e la connivenza colpevole della nostra classe dirigente che, in cambio della stabilità locale e di limitate richieste di reali risorse per il territorio, ma soprattutto per continuare, quasi legittimandola, una politica fatta di clientelismo e familismo, ha contribuito a perpetuare questo stato di cose. In una parte d’Italia che rappresenta il 34% della popolazione, ma che riceve il 28% della spesa, per forza di cose incide in maniera così pesante il gap infrastrutturale e di servizi così essenziali come la scuola e la sanità, penalizzate dalla scarsità di investimenti e dal conseguente danno economico. Si spiega così la migrazione sanitaria e lavorativa. Cure che vengono effettuate in ospedali del nord e posti di lavoro più disponibili al centro-nord.

Nel mio lavoro di medico ospedaliero ho avuto modo di verificare il perverso meccanismo dei rimborsi: i DRG (un finanziamento che la regione dà agli ospedali, basato sulla produzione e non sull’appropriatezza). Complici certi medici di famiglia che ospitano nei loro studi specialisti mandati da ospedali del nord, che provvedono ovviamente a farli operare o curare in strutture del nord, in cambio di una percentuale. In questo modo naturalmente il rimborso (da parte della regione di provenienza) andrà all’ospedale di destinazione, con ulteriore impoverimento del servizio territoriale. Oppure l’alta velocità ferroviaria, le linee autostradali, i porti e gli aeroporti, così carenti nel mezzogiorno, per non parlare del ponte sullo stretto. Tutti interventi infrastrutturali la cui mancata realizzazione pesa come un macigno sulla possibilità del sud di risollevarsi da una atavica situazione di arretratezza.

Immaginiamo se il corridoio economico via terra (autostrade e ferrovie) della merce proveniente dall’oriente e diretta ai mercati del nord Europa, invece di partire da Genova e Trieste (come vogliono i presidenti leghisti delle regioni) partisse da Gioia Tauro, Augusta o Gela. Non solo si ridurrebbe l’inquinamento (le navi inquinano e consumano di più), ma ne beneficerebbe tutto il mezzogiorno. Secondo i più accreditati e indipendenti osservatori economici, il rimedio è alla portata di una fattibilità ben evidente, considerate le caratteristiche naturali e culturali del nostro territorio.

Il sud non come batteria energetica del nord, con i suoi campi eolici e i parchi solari, ma come attrattiva internazionale turistica ed enogastronomica, purché le risorse siano destinate alla mobilità (alta velocità ferroviaria, autostrade, porti e aeroporti) e allo snellimento burocratico che soffoca e allontana, con la richiesta di una miriade di autorizzazioni, ogni investimento estero.

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