
Tremila anni documentati di guerre, invasioni, conquiste, distruzione e morte. Condottieri assurti al rango di eroi immortali in grado di trascinare in battaglia migliaia di uomini spinti solo dal piacere di assecondare la volontà del capo. Quegli uomini al seguito non erano che mercenari che valutavano il cibo assicurato, il soldo pagato, la promessa di avere un lauto bottino da spartire. In età moderna con Napoleone le cose cambiano un poco. Autodichiaratosi unico erede dei valori della Rivoluzione Francese, riesce a convincere i suoi eserciti a seguirlo in imprese impossibili non più per la speranza di un bottino ma per consolidare ed espandere le conquiste politiche, sociali, economiche e culturali di quella che sentivano essere stata anche la loro Rivoluzione antimonarchica. Da politico oltre che militare Napoleone vince anche per l’abilità delle sue delegazioni diplomatiche che assicurano che l’ingresso delle truppe vincitrici nei territori stranieri sia accolto come l’arrivo dei liberatori dai tiranni.
La sua sconfitta non arresta quel lungo e complesso processo che porterà alla ridefinizione di identità nazionali ormai associate a formazioni statuali che rivendicano autonomia e indipendenza reciproca, ma poi si alleano, si uniscono, si dividono e si combattono seguendo i diversi a volte contraddittori interessi economici di chi ne ha conquistato i vertici e li governa. Nascono e si affermano nuovi concetti politici, giuridici e istituzionali. Stato di diritto, legittimità del potere costituito e della rappresentanza politica. Un percorso mai del tutto concluso tanto che anche ai nostri giorni nelle controversie internazionali si ragiona in termini di governo legittimo o di usurpatori. Un percorso non lineare che negli ultimi duecento anni è stato più volte interrotto dalla comparsa sulla scena di uomini politici, di capi, leader o come li si voglia chiamare, che hanno puntato ad incarnare la rinascita di figure mitiche degli antichi condottieri disseminando rovina e morte nell’intero pianeta. Reazionari o rivoluzionari, di destra o di sinistra, i modelli di conquista o di reggenza del potere intorno alla figura di un capo non sono poi stati mai veramente distinti. Nelle società moderne e contemporanee si è via via però affermato un nuovo dittatore, il consenso di massa, e per conquistarlo si mettono a punto tecniche, organizzazioni, ideologie.
La fissa della necessità che ogni buona idea o visione della società, per avere una possibilità di affermarsi, deve avere un capo, un leader in grado di incarnarla e rappresentarla ha trovato nuove forme. Tutti alla ricerca di un capo con la giusta dose di carisma in grado di guidare verso la vittoria, come un grande condottiero. Aspetti ben studiati e analizzati da Max Weber. Proprio nelle democrazie consolidate, protette da un sistema di regole assai rigoroso, e tra queste certamente rientra quella italiana, i gruppi politici che si contendono il consenso degli elettori sono alla perenne ricerca di un leader cui affidare le sorti del Paese e che sia in grado di difendere i loro interessi. Un gioco, una simulazione delle ben più violente e cruenti vicende che determinavano la caduta dei capi antichi, che spesso assume i caratteri del grottesco se non del patetico. Sta di fatto che il potere è capacità concreta, operativa, di indirizzare, modificare, adattare, piegare i sistemi economici, politici, sociali ad una visione, agli interessi di chi ambisce ad esercitarlo. Dittatura o democrazia, minoranza o maggioranza numerica possono colorare di un segno o di un altro un regime ma in ogni caso ci sarà da conquistare il consenso di chi ha le competenze per garantire il funzionamento dei complessi apparati statuali, economico-sociali, dei sistemi tecnici e scientifici.
Fuori da ogni retorica la battaglia politica è una battaglia per il potere, altrimenti non è politica e non è battaglia. E si combatte per vincere, per sconfiggere l’avversario. I contendenti al potere in una dittatura o in una democrazia non si differenziano nei fini, sempre si vuole conquistare il potere, ma nel fatto che in una democrazia chi vince deve tener conto delle istanze rappresentate da chi ha perso nella competizione mentre in una dittatura si punta all’annientamento dell’avversario. Differenza sostanziale e non da poco. È ancora dai grandi pensatori dell’Ottocento, dotati di una grande capacità di prefigurare i possibili scenari futuri, che ci vengono degli spunti essenziali e utili perché queste nostre società e sistemi politici escano dall’impasse in cui si sono cacciati e che rischiano di farle implodere. Se il gioco politico in un sistema democratico non è un gioco al massacro ma i vincitori sentono l’obbligo di tutelare anche chi ha perso, e in particolare sentono l’obbligo di salvaguardare risorse e potenzialità che appartengono a tutti, allora più che la ricerca di un capo o di un nemico da battere, bisogna impegnarsi perché le istituzioni, i sistemi amministrativo-burocratici, i sistemi della formazione, dell’educazione e della ricerca scientifica e quelli per lo sviluppo tecnologico siano in grado di autogovernarsi, per garantire il bene comune che altro non è che la sopravvivenza stessa della società. Le democrazie, le società contemporanee non riusciranno a sopravvivere a sé stesse se non sviluppando meccanismi di decisione e di governo collegiale.
Cosa c’entra tutto ciò con quanto sta accedendo ai vertici del PD? Quattro brave persone che discutono e ambiscono ad essere eletti segretari del Partito. Qualcuno più furbo, qualcun altro più appassionato, chi è addormentato e addormenta, e chi dice: io ci sarò sempre qualsiasi cosa accada non mollo. Personaggi che avrebbero certamente ispirato Iannacci nello scrivere qualche altra strofa nella sua sempre aperta canzone Quelli che . Tutti ad affermare che: “poi dopo governeremo insieme”. Farsa nella farsa. Allora perché si contendono i voti? Ma veramente c’è chi crede ancora che il problema sia avere una figura forte e rappresentativa alla guida del partito per salvarlo da una deriva inarrestabile? Per questo quanto ci vogliono far credere stia accadendo nel PD non ci entusiasma, anzi ci annoia mortalmente.
L’ecumenismo di Mario Draghi e del Presidente Mattarella, eredi del più antico e radicato pensiero politico democristiano, è uscito sconfitto dall’ultima tornata elettorale. A sinistra in molti portano una fascia a lutto sul braccio ma, nonostante i fausti presagi dell’ex segretario Pd Enrico Letta, l’Italia rimane nell’Unione Europea e conferma l’alleanza con gli USA. Si è schierata con Zelens’kyj e non ci sono i carri armati per strada, non c’è traccia di caccia alle streghe e il provvedimento più contestato da destra e da sinistra del governo Conte, il reddito di cittadinanza, rimane in attesa di una riforma nel perdurare di una crisi occupazionale di grandi proporzioni. Non ci sono stati eclatanti “tagli alle tasse” e l’evasione fiscale rimane anche per il Presidente Meloni un problema da risolvere. Sanità, autonomie regionali e comunali seguono un iter istituzionale impeccabile. Come accade da anni, anche nell’ultimo mese dell’anno da poco finito le organizzazioni sindacali hanno indetto uno sciopero generale, hanno fatto la loro manifestazione a Roma per chiedere di essere ascoltati a pochi giorni dall’approvazione della legge finanziaria ma poi tutti sono ritornati nei ranghi. Ci troviamo in una situazione di calma piatta con qualche solita inevitabile scaramuccia, un torpore che rischia di farci morire per inedia. Noi prendiamo molti caffè, aguzziamo la vista e mentre Diogene con la sua lanterna andava in giro a cercare l’uomo, noi cerchiamo la Politica, ma continuiamo ad inciampare per il buio pesto che ci circonda.
È difficile continuare a cercare la politica , soprattutto per chi cerca una sinistra del lavoro , dell’ uguaglianza, della pace, della differenza di genere e dell’ ambiente.
Ma noi continueremo a cercarla con il pessimismo dell’ intelligenza e l’ottimismo della volontà
Raffaele Tecce