Gennaro di San Donato: l’archetipo del politico populista

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Ritratto di Gennaro (Sambiase Sanseverino) di San Donato (Fonte: Wikipedia)

“I politici si dividono generalmente in due categorie: gli utopisti con la testa fra le nuvole, e i realisti con i piedi nel fango” – George Orwell.

L’epitaffio funebre della persona di cui tratteremo potrebbe suonare così: “Gennaro Maria Sambiase duca di San Donato eroe del Risorgimento italiano, patriota e liberale. Partecipò ai moti rivoluzionari del 1848 e fu al seguito di Garibaldi nella Spedizione dei Mille. Servì la nazione come deputato e la sua terra come sindaco di Napoli e presidente della Provincia. A lui la gloria e il rispetto di una Nazione grata”. Tutto vero quanto asserito o, meglio, parte di una verità molto più complessa e miserevole come complessa e miserevole è la vicenda storica della transizione dei poteri nel periodo unitario. Gennaro Sambiase rappresenta un archetipo politico della peggior classe dirigente meridionale. Nato nel 1823 a Sala Consilina, Gennaro Maria Sambiase duca di San Donato iniziò il suo cursus honorum presso l’Intendenza di Caserta col modesto grado di impiegato. Di idee liberali partecipò ai moti rivoluzionari del 1848, non solo sulle barricate. Come ci racconta Vittorio Paliotti nel suo libro Storia della Camorra, il duca di San Donato fu scelto dai rivoluzionari per negoziare con i capi della “Bella Società Riformata” l’appoggio ai liberali in caso di scontri. Il duca si espose accettando la proposta dei malviventi (10.000 ducati per ogni caporione a titolo d’ingaggio, nonché documenti, firmati dal San Donato, che indicavano i possessori come appartenenti alla causa rivoluzionaria). Naturalmente i liberali rifiutarono ogni forma di commercio, ma da allora non poterono più sottrarsi alle continue estorsioni dei camorristi. Lo stesso San Donato, che non aveva onorato il patto coi camorristi, fu costretto all’autoesilio per scampare alle ire dei guappi. Per dieci anni fu esule tra Genova, Parigi, Londra e Torino. A Parigi incontrò Liborio Romano anch’egli esule per motivi politici. Lo stesso Romano che nel 1860 fu ministro degli interni borbonico; lo stesso Romano che, nonostante il suo ruolo, assegnò al capo indiscusso della camorra di allora, Salvatore De Crescenzo detto “Tore ‘e Crescienzo”, e ai suoi affiliati, il compito del mantenimento dell’ordine pubblico nella capitale invitandoli ad entrare nella “Guardia cittadina”, per favorire l’ingresso in città dei liberatori garibaldini, senza colpo ferire (come riferisce Piero Bevilacqua nella sua Breve storia dell’Italia meridionale).

Anche il Duca rientrò a Napoli con le truppe di Garibaldi e col grado di colonnello della Guardia Nazionale. I contemporanei lo descrivono alto, pingue, dal volto bonario e dal carattere gioviale. Negli anni che seguono l’unità d’Italia, gli incarichi politici si susseguono. Prima sovrintendente dei teatri, poi direttore del Banco di Napoli, consigliere comunale, presidente provinciale (per quasi 30 anni), sindaco di Napoli e deputato al Parlamento. Amato dal popolo, che vedeva in lui una persona capace di ascoltare i propri problemi, fu dal popolo appellato “’o duca nuost’ oppure ‘o duca pappone”, forse per la capacità di aggirare gli ostacoli burocratici ungendo le ruote del sistema, (come osserva Gino Doria in Le strade di Napoli). Una immensa popolarità che durò ininterrotta per quasi quarant’anni. Consenso che gli fu invidiato dallo stesso re Vittorio Emanuele, il quale ogni volta che veniva a Napoli chiedeva al suo duca: “Mi permettete di venire nel vostro regno?”. Una immensa clientela politica che lo seguiva per le strade, lo circondava nei caffè e che si racconta lui ricevesse sempre col sorriso, mai infastidito dai postulanti. Un giornalista suo contemporaneo, Luigi Antonio Vassallo, ci racconta addirittura che ricevesse i “sollecitatori” di primo mattino, assiso sul “camerino di decenza”. Per tutti aveva una buona parola, una promessa, una prebenda, dando l’illusione di essere ascoltati da chi contava. Governare le masse fu il suo gran merito. Durante il periodo in cui fu sindaco, dal 1876 al 1878, le casse comunali andarono miseramente in rosso, ma non per questo fu un cattivo primo cittadino. Per primo iniziò l’opera di abbattimento dei fatiscenti fondaci, finanziò il prolungamento dell’acquedotto del Serino, creò diversi mercati rionali e la cosiddetta “Villa del Popolo”, un parco urbano a ridosso della Porta del Carmine per lo svago dei meno abbienti. Proprio di fronte al parco, una strada gli fu dedicata alla sua morte avvenuta nel 1901. Ai suoi funerali parteciparono tutti, politici, nobili ma soprattutto popolani che piansero a calde lacrime la dipartita del buon “duca pappone”.

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