Il sopravvissuto

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Eugenio Scalfari (foto di la Repubblica)

Recentemente Rai3 ha mandato in onda un documentario in cui Eugenio Scalfari veniva intervistato dalle sue due figlie. Interessantissimo anche sotto il profilo familiare, segnato da un comportamento di coppia singolare (Scalfari amava due donne, la moglie e una compagna convivente che avevano entrambe accettato l’insolita situazione), il servizio illustrava adeguatamente la carriera professionale e pubblica di questo straordinario protagonista del giornalismo italiano. Fa piacere sottolineare che il servizio trasmesso può essere inteso come un apprezzabile “coccodrillo ante mortem” (Scalfari ha 97 anni compiuti), che ci è sembrato serio, veritiero e soprattutto scevro dalla retorica che accompagna la dipartita di personaggi più o meno illustri.

A cosa è sopravvissuto Scalfari? Non certo al quotidiano da lui fondato la Repubblica, che prosegue la sua regolare pubblicazione ospitando tuttora periodicamente le riflessioni etico-religiose del suo fondatore, ateo confesso. Anche se di questo periodo sono passate alla storia la sua apertura a Enrico Berlinguer e la pervicace opposizione a Craxi e Berlusconi. Scalfari è invece sopravvissuto a un giornale che non era una sua creatura ma del quale fu, oltre che il cofondatore, la bandiera. Parliamo della stagione “aurea” di L’Espresso, stagione che va dal 1955, anno della fondazione, al 1976, anno di nascita di la Repubblica.

Per spiegare cosa sia stato L’Espresso in quell’arco di tempo si rende necessario un breve cenno autobiografico. Conobbi questo settimanale un po’ esclusivo (in quegli anni i lettori si rivolgevano in maggioranza a settimanali come Oggi, Epoca, L’Europeo, solo per citare i più seguiti) quando frequentavo l’ultimo anno del tecnico commerciale. Ci capitò quell’anno un docente di lettere che, nell’àmbito di un rapporto con gli studenti molto aperto, fondato più sulla cultura che sulla lingua italiana, ce ne consigliò la lettura. Non so quanti dei miei colleghi seguirono il suo consiglio (credo pochi o nessuno), ma non cesserò mai di essere grato a quell’insegnante, capitato forse per caso in un istituto tecnico dove all’epoca, oltre la partita doppia e i primi rudimenti di economia e diritto, ti insegnavano, bisogna riconoscerlo, anche a scrivere decentemente e a comprendere un testo.

Sin dal primo impatto fui letteralmente conquistato da quel settimanale: formato insolito, come quello dei quotidiani 55×40, pubblicità molto contenuta, caratteri di stampa chiari e una ventina di pagine ricche di foto ma soprattutto colme di qualità. Non che avessi gli strumenti per accorgermene, ma l’ho capito dopo, quando mi sono reso conto della caratura di chi vi collaborava.

La cronaca politica e giudiziaria era curata oltre che da Scalfari, da Lino Jannuzzi e Gianpaolo Pansa: gli ultimi due imboccarono poi strade diverse, non proprio coerenti con l’impronta antifascista e legalitaria del settimanale che li aveva visti crescere professionalmente. Indimenticabili in quegli anni le inchieste sul SIFAR, sul “piano Solo” e sull’eversione di estrema destra in Veneto (i nomi di Franco Freda e Stefano Delle Chiaie erano noti ai lettori di L’Espresso ben prima della stagione stragista). Ma tanti erano i giornalisti di prestigio che la testata poteva esibire: agli esteri Antonio Gambino e Mauro Calamandrei, all’economia Fabrizio Dentice e Massimo Riva (economia), Corrado Augias e Livio Zanetti, che assunse la direzione del settimanale quando Scalfari fu eletto alla Camera nel 1968.

Altro motivo di orgoglio per noi lettori era la frequenza con cui collaboravano al settimanale grandi personalità della cultura come Carlo Arturo Jemolo, massimo studioso di diritto ecclesiastico, Giulio Carlo Argan, storico dell’arte, Renato Guttuso, Umberto Eco. Non meno prestigiosi erano gli scrittori: Leonardo Sciascia, Goffredo Parise, Giovanni Giudici, Enzo Siciliano, Alberto Arbasino, alcuni dei quali, come Angelo Maria Ripellino e Alberto Moravia, divennero poi titolari di rubriche fisse: quest’ultimo, in particolare, ne fu il critico cinematografico per anni.

La critica era poi curata da nomi di rilievo nazionale assoluto: la musica era nelle mani di Massimo Mila, il teatro in quelle di Fedele D’Amico, la storia in quelle di Leo Valiani, mentre Lelio Basso, illuminato costituzionalista, curava la materia giuridica, Bruno Zevi l’architettura, Camilla Cederna il costume (celebre la sua rubrica “Il lato debole”) e Sergio Saviane, esperto e brillante critico televisivo che coniò il termine di “mezzibusti” per indicare quegli anomali giornalisti che leggevano le notizie nei telegiornali, tipo Gianni Letta e Bruno Vespa. I due hanno poi fatto molta più strada di quella che il defunto Saviane avrebbe mai potuto immaginare. Sopravvissuti, ma solo anagraficamente, sono anche Corrado Augias, titolare all’epoca di una rubrica fissa e tuttora finissimo e brillante conduttore televisivo, e Paolo Mieli che collaborò giovanissimo al settimanale ma per breve tempo.

Poi L’Espresso è cambiato: nel marzo del 1974 il mitico formato “a lenzuolo” cedette il posto al formato tabloid, più adeguato ai tempi. Nel 1976 nacque la Repubblica e Scalfari si portò dietro alcuni collaboratori ai quali seguirono altri negli anni a venire. Da allora in poi il settimanale, pur mantenendo la linea originaria, ha cambiato ben otto direttori ed il parco dei collaboratori si è rinnovato come poteva, considerando anche l’ineluttabilità dell’anagrafe. Ma l’influenza che lo storico L’Espresso ha avuto sulle generazioni che hanno avuto la fortuna di incontrarlo, di sfogliarlo e magari di leggerlo dalla prima all’ultima pagina, come capitava a me, è stata enorme e definitiva.

Quando oggi ci si interroga sulle tante contraddizioni della cronaca, della società, della politica, dell’arte e della cultura i lettori della mia generazione cercheranno le risposte nei principi di legalità, di uguaglianza, di laicità, di senso critico riconducibili al liberalismo illuminato e democratico propugnato da quel settimanale. Memorabile fu, in proposito, un forum organizzato nel 1968 da Scalfari che invitò presso la sede del settimanale i direttori dei principali giornali cosiddetti indipendenti per dibattere il tema dell’imparzialità della stampa: la conclusione da lui proposta e condivisa fu che l’imparzialità assoluta era una chimera. Raro esempio di onestà intellettuale. Di questo e di molto altro dobbiamo ringraziare Eugenio Scalfari.

2 commenti su “Il sopravvissuto”

  1. Sergio+Pollina

    Complimenti vivissimi a Elio Mottola. Mi identifico in ogni parola che ha scritto, e mi ha suscitato un’ondata di ricordi. Io ero uno di quelli che leggevano il “lenzuolo”!

  2. elio mottola

    Ti ringrazio vivamente e, a giudicare dai tuoi articoli (che ci mancano), ero certo che tu fossi tra i lettori del vecchio “lenzuolo”. Come non farsi travolgere dal ricordo di tempi che lasciavano sperare in un rinnovamento della politica e degli italiani. Non è andata così. Peccato, sarà per un’altra volta. Grazie ancora e un in bocca al lupo.

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