Clicktivism

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Persone connesse agli smartphone (Foto di www.unsplash.com)

Un giorno prima della scadenza imposta dai talebani, gli USA hanno abbandonato l’Afghanistan, immortalando con una foto l’ultimo soldato statunitense che, nella notte tra il 30 e il 31 agosto, sale a bordo dell’aereo che lo riporterà a casa. Le notizie nell’era social viaggiano veloci come il vento, così mezzo mondo, tramite smartphone, segue il frenetico corso della storia a suon di click e condivisioni.

L’Afghanistan dopo 20 anni è tornato nelle mani dei talebani, questa volta più numerosi rispetto al 2001, ma soprattutto meglio equipaggiati, in quanto a Kabul, come nel resto del Paese, i soldati yankee (e non solo) hanno lasciato un vero e proprio bottino in termini di armi e munizioni. In questi giorni le principali testate giornalistiche hanno sottolineato quella che dovrebbe essere una analogia tra la guerra combattuta in Vietnam nel 1964 e quest’ultima in Afghanistan, racchiusa nella frase: “Kabul come Saigon”, eppure qualcosa di significativo non torna. Non solo perché l’evacuazione dal Vietnam fu pianificata sicuramente meglio rispetto a quella di Kabul, ma anche perché a giocare un ruolo chiave in quegli anni furono i numerosi movimenti di protesta che si schierarono apertamente contro il governo statunitense e contro la guerra in generale. Le espressioni di dissenso che ha suscitato l’intervento militare in Vietnam, sono passate alla storia come attivismo puro, riuscendo ad esprimere il concetto della solidarietà a km e km di distanza. Ad oggi cosa ci resta dell’esperienza di quegli anni? L’attivismo nell’epoca digitale purtroppo pare limitarsi a semplici click, like o condivisioni, nel migliore dei casi con una petizione di firme o con qualche donazione. Oggi si parla di Afghanistan, quasi più che di covid, ma sappiamo bene che tra non molto il conflitto sarà dimenticato, sostituito da chissà quale altra notizia lampo che ci intratterrà e ci indignerà, ma solo per pochissimo tempo.

Dall’attivismo militante, dalle strade piene e dagli slogan contro la guerra si è passati tristemente a quello che oggi potremmo definire clicktivism, dove il click rapido e indolore rappresenta il nostro dissenso o la nostra approvazione. Sia chiaro: sarebbe folle affermare che le dimostrazioni popolari del passato hanno cambiato il corso degli eventi; manifestazioni o meno la guerra in Vietnam, così come tantissime altre, è stata combattuta ugualmente, ma sarebbe altrettanto folle non ammettere che quel dissenso ha fatto vacillare il potere, puntandogli addosso i riflettori dell’opinione pubblica. Quelle manifestazioni hanno unito persone di differenti etnie e culture, hanno creato dibattito, incrementando la passione per la politica, quella che oggi appare completamente assente. Quegli anni di attivismo, che molti racchiudono banalmente solo nel ’68, hanno formato intere generazioni che hanno dato vita a rivolte morali e etiche. La rivoluzione sessuale di quegli anni, l’impegno contro la guerra, la rivendicazione di nuovi diritti civili, l’attivismo politico hanno fatto sì che intere generazioni potessero identificarsi in uno o più movimenti. Al contrario lo spaesamento politico e sociale al quale assistiamo oggi ha catapultato miliardi di giovani in una vita virtuale che non trova più nessuna concretezza nella realtà. Così mentre ci limitiamo a urlare i nostri slogan su una piattaforma, la storia, quella vera, quella che si respira nelle strade di Kabul, va avanti. Ad assistere all’ennesimo scempio bellico ci sono miliardi di utenti e nessun attivista. Ecco che quindi il clicktivism di oggi confonde, mescolando la forma con la sostanza, facendoci sentire attivi moralmente senza però trovare alcun riscontro nella realtà.

Ovviamente sarebbe stupido etichettare il progresso e la digitalizzazione della società come un male da cui guardarsi bene, la diffusione sui social è uno strumento innovativo, che raggiunge persone lontane km da noi e ci permette di informarci e informare; tuttavia a questi innovativi strumenti va affiancata l’azione vera, quella che ci permette di confrontarci realmente con le persone, quella che ci permette di creare e organizzare. Ecco che creare parallelismi tra ieri e oggi, tra questa o quella guerra, risulta un gioco a perdere, che dovrebbe farci riflettere sul ruolo della società civile, che ad oggi appare sempre più anestetizzata dagli schermi. La guerra del Vietnam, nonostante abbia rappresentato un fardello per milioni di civili, ha prodotto interessanti movimenti di protesta, a volte radicali a volte meno, investendo ogni ramo della società, diventando una fonte d’ispirazione per centinaia di giovani che hanno rappresentato quella che poi sarà definita la generazione della contro-cultura. E oggi cosa accadrà? L’Afghanistan e le sue dolorose vicende riusciranno a scuotere gli animi o resteranno solo i video su Youtube e niente più?  

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