Gaspare Traversi e la Napoli rococò

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Gaspare Traversi, Olio su tela

Un antico proverbio napoletano recita: “Vatteme addo’ vuoje tu, ma no addo’ me fa’ male” (Picchiami dove vuoi, ma non dove mi duole), intendendo: scherza su tutto ma non sulle cose vere che mi riguardano. Bene, il pittore Gaspare Traversi (Napoli 1722 – Roma 1770) era uno di quelli a cui piaceva sferzare i costumi con l’arma dell’ironia. Forse questo aspetto del suo carattere non gli permise di avere quel successo artistico che avrebbe pienamente meritato, condannandolo ad una sorta di damnatio memoriae durata oltre due secoli.

La sua riscoperta artistica è merito del grande storico dell’arte del Novecento Roberto Longhi, che ne rivalutò l’opera facendolo conoscere al vasto pubblico non solo attraverso i suoi scritti ma anche grazie all’attribuzione di diversi suoi quadri affibbiati nel tempo ad altri maestri del Settecento (soprattutto a Giuseppe Bonito).

Ma chi era Gaspare Traversi? Figlio di un mercante della Rua Catalana, fu battezzato nella chiesa di san Giorgio a via Medina (parrocchia dei mercanti della comunità genovese che risiedeva a Napoli). Fece il suo apprendistato da pittore presso il massimo esponente della pittura rococò napoletana, Francesco Solimena (soprannominato l’Abate Ciccio perché appartenente all’ordine terziario Domenicano). Anche se molto talentuoso, il giovane Gaspare, fu cacciato dal maestro perché alla sua attività di pittore aveva affiancato quella meno nobile di usuraio. Le sue prime opere napoletane certe sono quelle dipinte per la chiesa di santa Maria dell’Aiuto. Le tre grandi tele di soggetto mariano non ricevettero il successo sperato, per cui Gaspare pensò bene di incrementare le attività di prestito a strozzo associandosi col fratello Francesco “di mestiere scarparo ai Banchi Nuovi”. Nella sua bottega napoletana, ubicata nei pressi della distrutta chiesa di san Pietro a Fusariello nel seggio di Porto, incontrerà i suoi clienti, in cerca di soldi per finanziare i propri vizi, avendo così la possibilità di conoscere una vasta pletora di personaggi: nobili decaduti, cicisbei, borghesi rampanti in cerca di affermazione sociale e tanti popolani che si arrangiavano come potevano. Un vasto “campionario di tipi umani”, per dirlo con Balzac. Amico del poeta e librettista Pietro Trinchera (sovversivo più volte rinchiuso in carcere per le sue opere anticlericali ed infine suicidatosi per i suoi debiti nel 1775), Traversi si appassiona al teatro e rimane affascinato dal mondo dell’Opera Buffa, del genere musicale operistico che riscuote grandi consensi di pubblico grazie ai libretti scritti in italiano ed alle tematiche leggere ispirate alla vita e agli amori di persone comuni. Una lunga sfilza di successi che parte da Pergolesi e Scarlatti fino a culminare coi capolavori di Mozart, Rossini e Donizetti.

Traversi, pur continuando a dipingere soggetti sacri per le chiese di Roma (che elegge a sua seconda dimora), si dedica ad una serie di opere di piccolo formato dove raffigura sulla tela scene di vita quotidiana. Non sono “quadri di genere”, sono pamphlet sui costumi degeneri della sua gente e sulle contraddizioni di una realtà che poteva essere solo quella della Napoli settecentesca, fatta d’immense ricchezze e profonda miseria. L’Artista, che riscopre in sé una vena pittorica barocca, usa la teatralità della composizione e gli accentuati contrasti chiaroscurali per concentrare lo sguardo dello spettatore sulle situazioni ritratte, trasformandosi in uno “sprezzante censore dei vizi”.

Opera simbolo è il “trattenimento musicale” della Galleria di Capodimonte. Questo dipinto, all’apparenza innocente, illustra uno dei tipici intrattenimenti proposti ai ceti abbienti. Infatti, chi poteva permetterselo, poteva ingaggiare musicisti o cantanti provenienti dai quattro conservatori musicali della Capitale borbonica (Pietà dei Turchini, Sant’Onofrio a Porta Capuana, Santa Maria di Loreto e i Poveri di Gesù Cristo). Ma osservando bene, ci accorgiamo che la scena in realtà è un pretesto per rappresentare l’incontro tra una giovane prostituta ed un ricco signore, mediato da una vecchia ruffiana. Il gioco di sguardi dei personaggi guida l’occhio dello spettatore dalla finta pudicizia della musicista che accenna un sorriso malizioso, alla risata sguaiata della mezzana che pesa soddisfatta la scarsella con il compenso, all’apatico e ricco signore che, completamente disinteressato alla musica, guarda lo spettatore in modo complice e ammiccante. “Troppo disgradevole agli occhi dei viventi”, diranno della sua opera i frati di san Francesco a Nazzano, confermando l’assunto di un altro proverbio napoletano: ‘a verità tutt’a vonno dicere ma niscjuno s’á vò sentí ‘e dì…”.

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