Primarie sì, primarie no

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Inserimento di una scheda nell’urna (Immagine di www.unsplash.com).

Nel mese di giugno si sono svolte le primarie del Partito Democratico (PD) in vista delle elezioni comunali del prossimo autunno. Non hanno riguardato tutti i comuni ma, tra quelli più grandi, Bologna e la Capitale. Il fatto è stato, ancora una volta, celebrato dai vertici del PD come una prova di grande democrazia interna. E per un partito, i cui ascendenti si attennero per lungo tempo al centralismo democratico, è certamente una cosa lodevole. Ma, a quasi vent’anni dalla loro prima adozione (primarie della neonata Unione, vinte nel 2005 da Romano Prodi), è giusto chiedersi se, per caso, la democrazia interna promossa dalle primarie non abbia un costo troppo elevato in termini di coesione politica.

La domanda ci pone subito un dilemma: primarie riservate ai soli iscritti al partito o aperte ai militanti non iscritti, ai simpatizzanti e quindi, in ultima analisi, al pubblico? Per le primarie vinte da Prodi si optò per una linea che selezionava gli elettori attraverso il pagamento di una quota di partecipazione (un euro), promuovendoli quindi a finanziatori del partito, implicitamente militanti o almeno simpatizzanti. Ma le primarie inaugurate con Prodi, pur presentando altri candidati in lizza, suonavano in realtà come un’investitura popolare a chi aveva creato il nuovo partito. Insomma non vi erano presenti veri elementi di competizione. Nelle successive edizioni, sia nazionali che locali, si mantenne l’apertura al pubblico individuandone, talvolta ma non sempre, l’orientamento favorevole attraverso la semplice sottoscrizione di dichiarazioni di adesione. Lo scopo era quello di coinvolgere il più possibile in una dinamica democratica. Ma le primarie nel frattempo erano diventate vere e proprie competizioni volte a conquistare la candidatura alle elezioni amministrative o, nel caso di quelle nazionali, il ruolo di premier designato.

Le cronache ci hanno poi raccontato come, in più di un’occasione, i votanti alle primarie tutto fossero fuorché simpatizzanti. Ma aldilà di questi incresciosi episodi resta il fatto che spesso le primarie se le sono aggiudicate personaggi che godevano di un largo seguito personale ben più ampio del recinto ideologico e politico del partito. L’esempio più vistoso, ma non l’unico, di questa distorsione è stato Renzi. C’è voluto giusto qualche mese per capire che la sua posizione politica poco o nulla aveva da spartire con quella tradizionalmente solidaristica del PD e dei partiti da cui discende. Una volta al governo, Renzi si distinse sin da subito per iniziative spiazzanti: completamento dell’abolizione dell’IMU, revisione drastica dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, elargizione di benefici senza alcun collegamento con la condizione reddituale dei beneficiari, con la sola eccezione dei famosi 80 euro mensili che però escludevano di fatto i percettori di redditi troppo bassi.

Le primarie aperte possono dunque dare risultati indesiderati anche se i candidati vengono ammessi dagli organi di partito, spesso col solo intento di accedere a bacini elettorali altrimenti irraggiungibili. Di questa deformazione si erano evidentemente accorti Grillo e Casaleggio, che restrinsero le decisioni ai soli iscritti consegnandoli però alle cure di un’impresa privata e alla piattaforma Rousseau.

Sui rischi delle primarie aperte c’è dunque poco da aggiungere. Basta ricordare che nei partiti di destra le primarie sono una rarità: difficile immaginare primarie nel partito di Berlusconi. E non a caso in questi partiti la leadership è sempre solida e le contestazioni si concretizzano al massimo in fronde interne che forse verrebbero allo scoperto nei congressi, ove ce ne fossero, ma, si sa, a destra non incontrano grande consenso.

In realtà, a ben guardare, le primarie, anche se riservate ai soli iscritti, rappresentano una prova di debolezza perché denunciano una situazione di imbarazzo, se non addirittura di conflitto, nei vertici del partito, che determina l’incapacità o la paura di scegliere i candidati. Con le primarie si lascia decidere agli altri e gli organi di direzione del partito, che pure sono emanazione di un processo democratico, non ci fanno una bella figura E le conseguenze politiche sono, da un lato, la personalizzazione della politica in testa al personaggio “eletto direttamente dal popolo” e, dall’altro, la graduale perdita di identità dovuta ai ritocchi di volta in volta introdotti dalle propensioni personali del vincitore di turno, sia in sede nazionale che in sede locale. Certo, le primarie non sono il male assoluto, ma sarebbe interessante sapere quanto hanno contato nel declino incontestabile della sinistra.  

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