Palazzo Sansevero: arte, storia e leggenda

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Giovanni Balducci, “La pala del perdono”, chiesa di Santa Maria delle Grazie a Gesualdo.

Il filosofo francese Paul Ricoeur, nel suo saggio “Architettura e Narrativa: identità e differenze”, scriveva: «Racconto e costruzione operano una stessa sorta di iscrizione; l’uno nella durata, l’altro nella durezza del materiale». Esisterebbe dunque, a suo avviso, un rapporto osmotico tra testo letterario e immaginario architettonico e, viceversa, tra le architetture e l’immaginario letterario che le hanno ispirate.

In una città plurimillenaria come Napoli, dove sostanzialmente il rapporto tra il tracciato urbano primigenio e la concentrazione antropica è rimasto quasi immutato per oltre venti secoli, va da sé che ogni pietra, ogni edificio abbia tante storie da raccontare. Nei pressi dell’insula di san Domenico Maggiore, nel vicolo che costeggia il fianco sinistro della chiesa, troviamo una delle dimore patrizie più ricche di storia e leggenda: Palazzo de Sangro di Sansevero. Nel primo quarto del XVI secolo, Giovanni Merliano da Nola, valente scultore e architetto, fu incaricato da Giovan Francesco de Sangro, primo principe di Sansevero, di progettare e realizzare un palazzo per eleggerlo a dimora di famiglia. La vasta costruzione sorse su delle rovine di età romana (forse il tempio di Iside) e comprendeva, oltre agli appartamenti per nobili e famigli, un giardino porticato, due scuderie ed una piccola cappella dedicata alla Vergine Maria dell’Aiuto. Questo sacello già insisteva sul luogo da vari secoli ed era stato eretto come ex voto da un uomo che, accusato ingiustamente e condotto alla pena capitale, aveva gridato chiedendo l’aiuto della Vergine. Per effetto della sua impetrazione un muro sul posto crollò rivelando un’immagine della Madonna. L’uomo venne prosciolto da ogni accusa e fece erigere la cappella che divenne da allora luogo di pellegrinaggio. Palazzo Sansevero, questo superbo esempio di architettura rinascimentale é soprattutto ricordato per le tristi e singolari vicende occorse ai suoi abitanti nel corso dei secoli.

Carlo Gesualdo da Venosa, principe di stirpe normanna, rappresenta insieme al musicista Claudio Monteverdi una delle massime espressioni della musica cinquecentesca europea. Nipote di san Carlo Borromeo e intimo amico di Torquato Tasso, essendo figlio cadetto, il principe Carlo era destinato alla carriera ecclesiastica ma, a causa della prematura morte dei due fratelli maggiori, divenne “pater familias” di una delle casate più ricche e potenti del suo tempo. Per avere una discendenza fu costretto a contrarre matrimonio con sua cugina Maria D’Avalos, principessa di Pescara. Le nozze si celebrarono nella vicina chiesa di san Domenico Maggiore nel 1586 ed i festeggiamenti, che durarono per diversi giorni, si tennero nella loro dimora a Palazzo San Severo.

Le cronache raccontano che lo scontroso e irascibile Carlo, prima riluttante all’idea di prendere moglie, quando vide la splendida e disinibita Maria, ne rimase folgorato innamorandosene follemente. Il compositore dedicò alla moglie tutti i suoi nuovi lavori ed i primi due anni di matrimonio furono felici e benedetti dalla nascita di un erede. Il caso volle che Maria D’Avalos incontrasse, al battesimo del suo primogenito, il nobile Fabrizio Carafa. Tra i due scattò una scintilla che li fece perdere in un turbine di passione. La relazione adulterina andò avanti per parecchio tempo. Il principe Carlo, “addorato che ebbe il fieto del miccio” (“sentire puzza di bruciato”, modo di dire napoletano e citazione eduardiana dalla commedia “Questi Fantasmi” del 1945), tese una trappola agli amanti per coglierli sul fatto. Finse infatti di allontanarsi da palazzo per compiere una battuta di caccia nei suoi possedimenti degli Astroni e, armatosi di tutto punto, partì con i servi. Gli amanti, credendo di avere campo libero, si diedero appuntamento a palazzo, nella camera da letto degli sposi. Lì vennero sorpresi nudi dal principe che, accecato dal furore della gelosia, non solo uccise i fedifraghi, ma si accanì sui corpi senza vita tempestandoli di fendenti. Ordinò poi ai servi di illuminare a festa il Palazzo, esporre i corpi scempiati sulle scale d’accesso alla corte e di far accorrere sul posto i famigli e le persone del circondario per mostrare la sua folle opera. Non sazio fece ammazzare anche il secondo figlio perché troppo somigliante al Carafa.

Dagli atti giudiziari sulle indagini condotte dal Gran Tribunale della Vicaria emerge un altro fatto inquietante: passato il clamore e allontanatisi gli accorsi, prima dell’alba un monaco gobbo, identificato poi come sagrestano della chiesa di san Domenico Maggiore, approfittò della situazione per violare sessualmente il cadavere della sfortunata Maria D’Avalos. Tutto ciò accadde il 17 febbraio del 1590. L’indagine farsa assolse Carlo due giorni dopo il fatto “per aver legittimamente difeso l’onore”, ma lo condannò a 12 mesi di esilio per l’esposizione dei cadaveri. Il principe si rifugiò nel suo feudo di Gesualdo in Irpinia, temendo la vendetta delle potenti famiglie D’Avalos e Carafa.

Nel magnifico castello normanno rimase ben oltre il periodo d’esilio imposto dai giudici. In questo periodo videro la luce le sue opere musicali più struggenti. L’ultima raccolta pubblicata da Carlo Gesualdo, il ciclo di Tenebrae Responsoria, vide la luce nel 1611, edita da Giovanni Giacomo Carlino e stampata proprio nel Palazzo Sansevero.

Se vi capitasse di ammirare il misterioso e affascinante quadro di Giovanni Balducci nella chiesa di Santa Maria delle Grazie a Gesualdo, intitolata “la pala del perdono”, commissionata dallo stesso principe Carlo, vi ritrovereste a fissare oltre a Santi, Madonne e al Cristo, tutti i personaggi della vicenda: Carlo inginocchiato a sinistra, le anime del Purgatorio rappresentanti Maria D’Avalos e Fabrizio Carafa e l’angioletto nel limbo, il piccolo Alfonsino. Nella sua folle superbia il Principe credeva infatti di poter ricevere il perdono ricordando a Cristo che, benché fosse un assassino, aveva fatto erigere due monasteri (dedicati a sant’Antonio e san Domenico, rappresentati a sinistra e a destra del registro superiore). Si augurava inoltre che, così come Gesù aveva perdonato la peccatrice Maddalena (terzo registro a destra), poteva perdonare pure lui che in fondo aveva anche un santo in famiglia (Carlo Borromeo, in basso a sinistra in piedi). L’effigie della nuova moglie, Elisabetta d’Este, (nel quadro in basso a destra) è stata riscoperta dopo un restauro. La sua figura fu coperta già nel Seicento con l’immagine di una Santa vestita da monaca (che per un gioco di luce sembrava avere i baffi), perché a Carlo sembrava forse indegno presentarsi a Dio risposato e non troppo addolorato.

Morto Gesualdo, Palazzo Sansevero divenne per la gente il “palazzo maledetto”: urla strazianti nella notte, fantasmi di donne discinte, luci e suoni provenienti dalla magione listata a lutto. Per fare cessare queste voci, il principe Alessandro di Sansevero, vescovo di Benevento, promosse il restyling della facciata del palazzo donandogli un aspetto barocco con la costruzione del nuovo portale in piperno “con colonne e timpano spezzato”, fece affrescare i saloni da grandi pittori, tra i quali Bellisario Corenzio, e fece erigere, dove un tempo esisteva la cappella nel giardino, una nuova chiesa dedicandola alla deposizione di Cristo. La stessa cappella della pietà (o Pietatella), un secolo dopo, il più illustre e chiacchierato inquilino dello stabile, Raimondo di Sangro principe di Sansevero, trasformerà in quel capolavoro universalmente riconosciuto che ancora oggi abbiamo la fortuna di visitare.

Raimondo fece aggiungere, tra le altre cose, un passaggio coperto tra la Cappella e il Palazzo. Questo passaggio da lui progettato veniva chiamato dal popolo “a carillono” (napoletanizzazione di “carillon”, l’orologio collocato sulla sua sommità, che suonava una musichetta ogni ora). Il camminamento crollò alla fine dell’Ottocento staccando parte della facciata del piano nobile e mostrando l’interno di una stanza murata, forse la scena del duplice delitto perpetrato nel 1590. Un’ultima curiosità, prima citavamo Eduardo De Filippo e la sua commedia “Questi Fantasmi”; ebbene, secondo lo stesso autore, fu proprio la vicenda di Carlo Gesualdo ad ispirargli quella commedia. Infatti, quando nel 1966 se ne trasse il film con Sophia Loren e Vittorio Gassman, Palazzo Sansevero fu scelto come set delle riprese.

Bellezza architettonica, grande musica, teatro d’autore, maledizione e fantasmi… Cosa si può volere di più?

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