Scuola e politica

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Irene Tinagli, La grande ignoranza. Dall’uomo qualunque al ministro qualunque, l’ascesa dell’incompetenza e il declino dell’Italia, BUR 2020

Irene Tinagli, una brava scrittrice ma soprattutto un’ottima economista bocconiana che ha avuto incarichi di governo, di recente ha scritto un libro sull’incompetenza pervasiva dei nostri parlamentari e ministri – non tutti ovviamente, ma una buona parte – la quale incide in maniera decisiva sulle scelte di governo, avviando l’Italia a un declino che è sotto gli occhi di tutti. La Tinagli non fa assolutamente la difesa di un governo di tecnici che in un passato, pure recente, abbiamo visto all’opera, con un sussiego e una insofferenza palese del politico puro, che alla prima occasione lo ha fatto cadere.

Infatti la pura conoscenza della materia non basta per svolgere al meglio incarichi ministeriali; sono necessarie doti manageriali, di mediazione, diplomazia, che solo un politico navigato può avere… ma un politico con queste capacità, che per demagogia si affianca a un tecnico, quasi sempre fa prevalere il proprio punto di vista, in nome della democrazia, del popolo, delle classi meno agiate e quant’altro.

Un politico dovrebbe dare un indirizzo programmatico per la realizzazione di un progetto. Realizzazione che deve essere affidata a un tecnico scelto per le sue competenze nella materia. Ad esempio, se in un territorio non ci sono presidi sanitari, spetta a lui riportare questa esigenza a livello centrale e richiederne perciò i finanziamenti per la sua realizzazione. Purtroppo la sua influenza si estende anche alla gestione e alla spesa dei fondi, condizionandone in maniera determinante la sua destinazione, a quel tecnico o a quella ditta a lui vicini. Così avviene a livello nazionale, a tutti livelli, quando un tecnico viene chiamato in un dicastero o alla guida del Paese. È tollerato per opportunismo e, alla prima occasione, viene sfiduciato.

Consideriamo ora gli interventi e le interviste a molti politici, pure di rango, che si esprimono per frasi fatte, poco originali (spesso con ripetizione degli slogan dei segretari di partito di appartenenza) e sconclusionate per la scarsa dimestichezza con la sintassi (spesso con la grammatica). E mi sono chiesto dove sia finito quel linguaggio allusivo, articolato e magistralmente argomentato dei politici della prima Repubblica, che pure ne hanno combinate di cotte e di crude, tanto da sollevare uno sdegno nazionale durante il processo in diretta TV di “mani pulite”, che ne ha fatto scomparire i partiti di appartenenza, costringendo molti di loro a ritirarsi dalla vita politica o a riciclarsi in altre formazioni. Tutto dipende, secondo me, dal tipo di istruzione, non dal grado, che l’istituzione scolastica ha smesso di trasmettere, identificandolo con l’educazione “formativa”. Un retaggio che trae origine da una celebre opera del Settecento di Jean-Jacques Rousseau, l’ “Emilio”. Nell’Emilio infatti il filosofo pedagogo intende l’istruzione scolastica come un mezzo per educare il giovane a inserirsi nella vita sociale in modo ottimale, influendo sulle sue doti naturali, assecondandole ed educandole a quello scopo. Rousseau, quindi, relega l’istruzione a un ruolo assolutamente secondario. Declinato in vari modi, questo progetto ha conosciuto alterne fortune negli anni seguenti, fino alle più recenti del secolo scorso, con le riforme Gentile, Bottai e Berlinguer.

La riforma Gentile tentò di tornare a far confluire educazione e istruzione in un tutt’uno, cercando di arginare la tendenza di rendere la scuola funzionale alla richiesta sociale di conoscenze specifiche. Mettendo al centro di questa programmazione l’insegnante, il demiurgo dal quale promana il sapere della tradizione occidentale, storica e letteraria, l’unica in grado di sviluppare la libertà e l’originalità dell’allievo, costruendone il mondo morale e sentimentale e dotandolo di quei valori “umanizzanti” che lo fanno sentire parte di una comunità e di una cultura, con la consapevolezza e la responsabilità che ognuno di noi sente di vivere la propria epoca.

La riforma Bottai, che seguì, ne provocò lo stravolgimento, mettendo invece in primo piano la scuola formativa, cioè il prevalere di nuovo dell’educazione sull’istruzione. Educazione ovviamente funzionale al regime fascista dell’epoca. Poi, con l’affermarsi della democrazia, questo dualismo è andato sempre più contrapponendosi fino alla resa totale di uno dei due “contendenti”, con l’ingresso nella comunità europea e le sue direttive comunitarie. Si è operata così una progressiva “snazionalizzazione” culturale, con una perdita della propria identità, sacrificata sull’altare della ispirazione sovranazionale della UE.

Le parole d’ordine ormai sono: scuola sociale, didattica delle competenze (ossia conformare le capacità e il carattere di ognuno a ciò che si richiede per vivere nella società), autonomia scolastica, pof (piani di offerta formativa) e democratizzazione, con l’ingresso pervasivo nelle attività e negli orientamenti di genitori, sindacati e politica territoriale. La scuola così non è più un’alternativa alla società, né un posto privilegiato dove regnano l’istruzione e il sapere, viatico di una crescita mentale e intellettuale, ma una sua semplice articolazione funzionale, e da ciò discende la convinzione ormai dilagante di un egualitarismo antimeritocratico che vede nell’Italia il Paese europeo con più assunti nella pubblica amministrazione senza concorso (necessario, secondo l’articolo 97 della Costituzione). Il Paese in cui la selezione per merito è vista dai comuni cittadini come lo strumento per perpetrare differenze sociali e dai politici come un’occasione per distribuire posti pubblici e cercare così consenso, chiedendo sanatorie e immissioni in ruolo di precari.

È dunque una scuola che si articola sullo sviluppo delle competenze del “fare”, che sostituisce quello del “conoscere”. Con un rifiuto verso il conoscere “inutile” a favore di ciò che serve ed è quantificabile, scientifico, tecnico. Fino all’istituzione del “portfolio delle competenze”: una sorta di ruolino di marcia dell’intero percorso scolastico dello studente, in cui è indicato anno dopo anno ciò che è stato in grado di apprendere e quindi le sue capacità attitudinali, necessarie per decidere il suo futuro esistenziale. Ne deriva una povertà mentale e intellettuale che non viene percepita come tale, ma come una urgente necessità dovuta alla globalizzazione e alle esigenze del mercato del lavoro.

Rilevazione tratta dalla p. 236 del libro di Irene Tinagli

Concludo con un approssimativo e temporaneo elenco dei figli di questa scuola e lascio al lettore i commenti: Fico, presidente della Camera, diploma di maturità (40/60); Di Maio, ministro degli esteri (diploma di maturità 100/100); Salvini, segretario della Lega, primo partito italiano (diploma di maturità 48/60, fuoricorso alla facoltà di scienze storiche); Toninelli (assicuratore, laurea in giurisprudenza), ex ministro dei lavori pubblici; Meloni (diploma di liceo linguistico), segretario di Fratelli d’Italia, aspirante premier; Zingaretti (perito odontotecnico), governatore del Lazio; Speranza (laurea in scienze politiche), ministro della salute; infine Valeria Fedeli, maestra d’infanzia, ex ministro della pubblica istruzione, ex sindacalista della Cgil poligrafici e cartai, che confuse durante una commemorazione Vittorio Amedeo III con Vittorio Emanuele III. E ci meravigliamo delle figuracce, consapevoli, di molti politici intervistati dai giornalisti delle “Iene”, che non solo ignorano leggi con riferimenti costituzionali, che hanno appena votato, ma ridono quasi compiaciuti di quella che, candidamente, fanno passare per momentanea dimenticanza!

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