Enrico Letta e la crisi del PD

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Enrico Letta, segretario del Partito Democratico

Quando finirà la crisi del PD? Le dimissioni al vetriolo di Zingaretti sembravano dover aprire una stagione di ricomposizione interna delle correnti, favorita anche dal sostanziale fallimento di Italia Viva. Nulla di tutto questo. Le divisioni sono restate e l’arrivo di Enrico Letta, presunto salvatore della patria, non ha spostato di un millimetro le posizioni.

D’altra parte la figura di Letta non ha mai brillato per carisma e capacità di attrarre tutti sotto un’unica bandiera. Era sereno già prima che glielo suggerisse Renzi e lo è tuttora, più uno studioso di politica che un politico. La sua mancanza di incisività non è una novità: c’è un gran darsi da fare composto, com’è nell’indole del personaggio, ma le sue uscite risultano sempre intempestive e fiacche. Il voto ai sedicenni da lui proposto non ha sollevato alcun interesse, perché non è questo il momento di fare riforme che non abbiano una ricaduta sulla ripresa economica. L’ultima sortita appare addirittura improvvida. L’intenzione era quella di piantare una bandierina su un moderatissimo aumento nella tassazione delle successioni e delle donazioni, tanto per contrastare i continui sbandieramenti di Salvini. Anche se nei contenuti la cosa era sacrosanta, sia per l’effetto redistributivo che per ridurre simbolicamente l’enorme divario col resto d’Europa (in Italia sarebbe passata dal 4 al 5% mentre in Germania vige il 30% ed in Francia addirittura il 45%). Letta non ha però considerato che la proposta avrebbe messo in difficoltà Draghi, il quale l’ha per il momento bocciata in malo modo sia pure riservando lo stesso trattamento alla richiesta della flat tax, pervenutagli nel frattempo dalla destra.

Il rifiuto di Draghi era in realtà prevedibile per la semplice ragione che, accettando la proposta di Letta, avrebbe turbato il difficile equilibrio che sta mantenendo su un tema cruciale, equilibrio che Draghi dovrà necessariamente rompere quando metterà mano alla riforma fiscale da lui esplicitamente orientata verso la progressività sin dal discorso di insediamento. In quella occasione Salvini non mosse alcuna obiezione perché la Lega si accingeva a sostenere il nuovo governo ma, come stiamo vedendo, non perde occasione per tornare sulla flat tax, che sarà forse il pretesto per lasciare il governo ergendosi a paladino dei contribuenti vessati.

È evidente, ed avrebbe dovuto pensarlo anche Letta, che Draghi piazzerà questa riforma decisiva non prima che arrivino concreti segnali di ripresa a conferma della validità del percorso intrapreso dal suo governo. Solo a quel punto Draghi potrà mettere mano alle famose riforme, agitando lo spettro del diniego dei finanziamenti da parte dell’Europa che le pretende. I partiti che non le voteranno dovranno assumersi la responsabilità dell’enorme danno arrecato al Paese. È però prevedibile che queste riforme siano più vicine all’impostazione del PD, più in sintonia con le condizioni che l’Europa porrà per dare corso ai finanziamenti. È per questo che la mossa di Letta è fuori tempo pur nella validità del suo contenuto. Dopo il rifiuto di Draghi il PD ha dovuto battere in ritirata ribadendo però che il disegno è soltanto rinviato alla prossima legislatura. Auguriamoci invece che prima di allora sopravvenga una riforma fiscale complessiva almeno accettabile sotto il profilo redistributivo.

Oggi al PD non resta che assecondare l’operato di Draghi, sottolineando a fini propagandistici tutte le scelte vicine alla propria visione ma stando attento a non ostacolarlo, perché solo Draghi potrà evitare che il Paese finisca nelle grinfie di questa destra.

Alle prossime elezioni ci dovrebbe andare Draghi a capo di uno schieramento politico in cui il PD potrà avere la parte preminente. Questo obiettivo non sarà centrato, se il PD inizierà, per contrastare la Lega, a forzare la mano a Draghi. Il PD potrà, e farebbe bene a farlo con la massima incisività, attaccare la destra sulle tematiche nelle quali è più debole e vulnerabile, come l’approvazione del decreto Zan. Oppure contestare con puntualità e senza remore tutti gli episodi di malaffare, e sono tanti, che giorno dopo giorno emergono a carico di leghisti, o ancora alle malefatte dei neofascisti vicini a Fdl, che non mancano mai.

Prima di alzare la posta politica il PD dovrà ricostruire una direzione omogenea e dinamica, avvalendosi delle personalità già esistenti al suo interno ma non abbastanza valorizzate, come Giuseppe Provenzano, Fabrizio Barca, Gianni Cuperlo e soprattutto la vice di Bonaccini, Elly Schlein, che farebbe sicuramente breccia nell’elettorato femminile e non solo.

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