L’Imbrecciata, quartiere dei piaceri dal XV al XIX secolo

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Napoli, immagine dell’Imbrecciata di Porta Capuana

Il marchese Donatien Alphonse de Sade venne in Italia nel 1775 per scampare ad una condanna a morte comminata dal tribunale di Aix en Provence (accusato di avvelenamento, sodomia e di altre violenze su cinque ragazzine assunte al suo servizio). In quella occasione visitò Napoli e rimase scandalizzato dal numero di prostitute e femminelli, di tutte le età e razze, che si offrivano in un quartiere della città ad ogni ora del giorno e della notte, senza timore della legge. Il “divin marchese” stava parlando del quartiere “degli amori facili” della Imbrecciata. Dall’età aragonese (1496) fino all’unità d’Italia (1861) un intero distretto cittadino oltre le mura di porta Capuana fu dedicato ad ospitare postriboli e taverne. In origine la zona (quasi quattro ettari) fu ceduta dal re aragonese Ferrante I alla famiglia degli Incarnati (pare per onorare un debito di gioco contratto con questi ultimi). Agli stessi Incarnati concesse, sull’intero territorio, l’esenzione sulla Gabella del Vino (1\3 del ricavato della vendita del vino spettava come tassa alla corona) e la possibilità di edificare una villa vicino al suo “Casino delle delizie” di Poggioreale. La favorevole posizione dei terreni, prossima alla strada delle Puglie (tappa obbligata per chi voleva accedere in città venendo dal sud), l’esenzione fiscale e la vicinanza alla capitale, fecero sì che fiorissero nella zona numerose locande. Tra le più celebri si ricordano quella del “Crispano”, la “Taverna degli Zingari” e “l’Acqua della Bofala”. Tutte offrivano buona tavola, buon vino ma anche la possibilità di intrattenersi con “donne di piacere”.

Il toponimo imbrecciata deriva dai “brecci” ossia le pietre fluviali, raccolte in zona, per lastricare le stradine del quartiere. Nei pressi infatti scorreva un piccolo torrente alluvionale, detto “arenaccia” (il fiumiciattolo, che raccoglieva le acque piovane che scendevano da Capodichino e Capodimonte fu tombato ai primi del 1900). Negli anni del viceregno la zona visse un vero boom a causa dell’acquartieramento delle truppe spagnole in città e della grande “fama” che il quartiere riscuoteva presso i visitatori del regno che, nelle loro cronache di viaggio, raccontavano “la bellezza delle cortigiane e la bontà del vino”.

I postriboli, le taverne e le case da gioco si moltiplicarono all’Imbrecciata (molte appartenevano agli stessi rappresentanti della corte spagnola a Napoli, che esercitavano tramite prestanome). La citata taverna del Crispano, dove si ballava la “’ntrezzata”, la “ceccona” o lo “torniello”, era quella preferita dalla nobiltà e dagli intellettuali: Caravaggio la frequentò con i marchesi Colonna (suoi protettori), Gian Battista Basile, l’autore de “lo cunto de li cunti”, si ispirò agli ambienti licenziosi per scrivere le sue novelle; lo stesso fece lo scrittore Giulio Cesare Cortese per scrivere la sua “Vajasseide”. Molti pittori importanti nei due secoli successivi cercarono tra le meretrici le modelle per le loro opere immortali (Mattia Preti, Gaspare Traversi, Antonio Mancini per citarne solo alcuni).

Napoli detenne per quasi due secoli il triste primato di capitale europea della prostituzione. Nel 1781 il quartiere fu riconosciuto come l’unico posto della città dove l’esercizio del meretricio era ufficialmente ammesso. Alla metà dell’Ottocento fu eretto un muro di cinta che delimitava l’Imbrecciata e, all’unico cancello che dava accesso alla zona a luci rosse, fu posta una guardia di polizia, la quale si assicurava anche che ogni attività terminasse entro la mezzanotte.

Le povere “operatrici del sesso”, oltre alle tante vessazioni subite, erano anche costrette a cedere parte dei loro guadagni ai tanti manigoldi (in napoletano appellati spregiativamente “ricottari”) che frequentavano il quartiere. Finché la camorra, capita l’entità dell’affare, non impose una sorta di “gestore unico delle entrate” cacciando i concorrenti a coltellate. Tanto era il gettito del pizzo sulla prostituzione che chi comandava all’Imbrecciata finiva per diventare il “prence”, il “capintesta” della auto-nominatasi “Onorata Società”. Fra i tanti abietti personaggi che possiamo definire “guappi”, si ricorda la figura di Ciccio Cappuccio, figlio di un locandiere della zona che divenne capo della camorra e paladino delle “sventurate” (il poeta e giornalista Ferdinando Russo lo definì tale nella “canzone di Ciccio Cappuccio” del 1892).

Questo “allegro quartiere” che Gustave Flaubert appellò “suburra napoletana” e a cui Alexandre Dumas padre dedico diversi articoli, chiuse i battenti con l’unità d’Italia. Il nuovo stato savoiardo infatti, sostituendosi a lenoni, maitresse e camorristi, nazionalizzò le case di tolleranza e permise di aprirne nuove anche in altri posti della città (legge Cavour del 15 febbraio 1860), “purché si tenesse un registro delle meretrici e si creasse una forza di polizia sanitaria”. Le mura dell’Imbrecciata furono abbattute e l’intero quartiere fu oggetto del programma di Risanamento urbano (legge 2892), varato dopo l’epidemia di colera del 1884. La triste fama del “quartiere del piacere” andò verso l’oblio. Solo nella toponomastica del luogo rimangono i nomi: Vico dei Femminelli, Via degli Incarnati, Via degli zingari. Un pensiero compassionevole va alle migliaia di sventurate obbligate dalle esigenze della sopravvivenza a divenire schiave del piacere.

Una tragica ed emblematica storia tra tutte: quella di Bernardina da Pisa, moglie del più celebre Masaniello. Caduta in disgrazia dopo la morte del marito e la fallita rivolta popolare, “fu costretta a guadagnarsi da vivere vendendo il suo corpo”. Con lo spregiante appellativo di “duchessa delle sarde salate” si prendeva beffa di lei la soldataglia spagnola. Morì a soli 31 anni nel 1656, devastata dagli effetti della sifilide.

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