Micco Spadaro, un pittore reporter

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Micco Spadaro, Processione di san Gennaro per l’eruzione del Vesuvio nel 1631 (Napoli, Museo Nazionale della Certosa di San Martino)

Il XVII secolo a Napoli fu un periodo storico straordinariamente complesso. Sotto la dominazione spagnola, il vicereame visse un assoluto splendore culturale: il periodo viene definito dalla storiografia ufficiale anche come “secolo d’oro della pittura napoletana”. Alle figure più celebri come José de Ribera, Massimo Stanzione, Battistello Caracciolo, Luca Giordano e Mattia Preti (solo per citarne alcuni) si affiancano maestri di minore fama, che seppero però fotografare al meglio lo spirito dei tempi, restituendo a noi posteri l’esatta idea di cosa fosse vivere Napoli in quegli anni. Il ‘600 infatti fu anche il secolo delle tre grandi sciagure che si abbatterono sulla capitale: l’eruzione violentissima del Vesuvio nel 1631, la rivoluzione di Masaniello nel 1647 e la peste del 1656. Il “pittore reporter” di questi tragici avvenimenti fu Micco Spadaro (al secolo Domenico Gargiulo).

Bernardo De Dominici nella sua opera “Vite de pittori, scultori ed architetti napoletani” ce ne restituisce il ritratto sia fisico che caratteriale: “l’artista è di statura bassa, corpulento, col naso lungo, baffuto e il volto sporco quasi sempre di tabacco. Si presenta caratterialmente amichevole, solare, giocherellone e soprattutto furbo”. Micco, figlio di un fabbricante di spade che aveva bottega nei pressi del porto, lasciata l’attività paterna fu preso a bottega da Aniello Falcone e per compagno di corso ebbe Salvator Rosa. Più che a soggetti sacri o epici dedicò la sua pittura alla rappresentazione del vissuto quotidiano.

Essendo considerato dalla critica (Zeri, Spinosa) tra gli iniziatori della “pittura di genere”, le sue figurine allungate, abbozzate, inserite in scenari affollati della Napoli sua contemporanea, servono a raccontare il dramma del quotidiano: dramma del popolo esasperato dalle gabelle e dai balzelli raddoppiati per finanziare la guerra delle Fiandre; dramma per la militarizzazione forzata subita dai napoletani (le truppe acquartierate tra il forte di Sant’Elmo e la pianura del “mercatello”, pronte a reprimere ogni possibile protesta); dramma per il mancato approvvigionamento di cibo proveniente prevalentemente dalle campagne attorno al Vesuvio bloccato dalle eruzioni; dramma dell’epidemia di peste che uccise 240.000 persone (i tre quarti della popolazione).

Micco Spadaro, La rivolta di Masaniello in piazza mercato

Le tre grandi tele dello Spadaro, conservate al Museo Nazionale della Certosa di San Martino, sono emblematiche, nella loro potenza evocativa, nel darci una visione, uno spaccato di contemporaneità: “La rivolta di Masaniello in piazza mercato”, “l’eruzione del Vesuvio vista dal ponte della Maddalena” e “scene di peste in largo del mercatello” (attuale piazza Dante).

Micco Spadaro, Largo Mercatello a Napoli durante la peste del 1656

Un file rouge attraversa il racconto: la folla; la folla che diventa un’onda che sbaraglia gli ostacoli travolgendoli o si ritira sconfitta di fronte all'”imponderabile morte”. Il pittore la ritrae senza pathos, senza retorica: la “fotografa” per quella che è. I Santi Patroni (Napoli ne conta in quel periodo ben 52!) Micco li pone nel registro alto, in posizione non predominante ed in dimensioni ridotte, mentre assistono dall’alto senza intervenire.

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