La mia esperienza a Cuba

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Una delle stradine dell’Habana distrutte dall’uragano Irma del 2017 (foto di Francesco Fusi)

Nei giorni scorsi mi sono imbattuto in un articolo, intitolato “Cuba, tempo di riforme economiche. Basterà alla ripresa (senza libertà)?”, che mi ha sorpreso. La descrizione che vi ho letto della vita sull’Isola mi ha spinto a raccontare una mia esperienza di viaggio a Cuba.

Quando nel settembre del 2017 atterrai a Cuba, pochi giorni prima del mio arrivo sull’Isola si era abbattuto l’uragano Irma, il primo uragano di categoria 5 che colpiva Cuba dal 1924. Un disastro naturale che ha provocato enormi danni, con un bilancio di 10 morti e raffiche di vento che avevano sradicato tetti, distrutto alberi e interrotto linee telefoniche. L’Isola era in ginocchio e il Paese da nord a sud contava i danni. Ricordo la prima notte: dovetti dormire in un letto d’acqua, la stanza che avevo prenotato nella casa particular era allagata e lo scenario era quello dei film apocalittici; nel mio percorso dall’aeroporto Josè Martì al centro dell’Habana vedevo cose strane: alberi impalati nei tetti degli edifici, macchine rovesciate. Per me europeo, abituato al tepore del clima mediterraneo, la situazione sembrava agghiacciante, quel viaggio che avevo desiderato tanto mi sembrava di colpo un incubo. L’indomani, dopo una notte insonne, mi armai del miglior coraggio e scesi in strada per vedere per la prima volta l’Habana. Una folla di persone dal malecon (lungomare della capitale) fino alle stradine sgarrupate che portavano al centro, con secchi alla mano svuotavano d’acqua case ed edifici pubblici. Le persone non sembravano così distrutte, effettivamente capii, parlando un po’ qui e un po’ lì, che uragani, maremoti e tormente sono annualmente cosa scontata. In Florida e quindi nel golfo del Messico, Cuba, Portorico, Mar dei Caraibi, da luglio a ottobre, ogni angolo di costa corre il rischio di essere spazzato via. E così mi sorprese apprendere che tra tutti questi Paesi, compresa la Florida statunitense, quello che ogni anno si distingueva per uno studio dettagliato su come prevedere questi fenomeni naturali, era proprio Cuba, che oltre a contare meno morti rispetto agli altri Paesi, contava meni danni.

Non osavo immaginare allora in che condizione si trovasse la Florida esattamente a poche miglia di distanza da me: quell’anno la Florida contò 30 morti su un totale di 134 vittime complessive. Così la mia curiosità schizzò alle stelle: “ma come è possibile che case fatte con lamiere di ferro e tetti sgarrupati possano resistere di più rispetto ai grandi blocchi di cemento yankee?” Eppure Cuba, come sostengono molti scienziati ed esperti del settore, da anni è nell’occhio del cambiamento climatico a causa della sua posizione geografica, come citano i colleghi di Rinnovabili.it: “Tra il 1995 e il 2013 si sarebbe infatti registrata la più intensa attività ciclonica mai verificatasi dal 1886, come è stato dichiarato in occasione del IX Congresso Internazionale sulle catastrofi”.

Intanto, mentre ragionavo tra me e me, cercavo anche di rendermi utile, così presi un secchio e dei guanti e, passando di casa in casa, toglievo acqua e pietre; all’interno delle abitazioni vedevo che ogni oggetto, dalle sedie ai mobili, venivano appesi ai tetti per non far scoperchiare le case, un modo rudimentale ma efficace per provare a bilanciare la forza del vento. Non un vento qualsiasi, uno di quelli tropicali che come nel caso di Irma ha raggiunto anche i 215 km/h. Così appresi che non sempre i Paesi cosiddetti “più sviluppati” sono i più sicuri.

Sin dai primi anni della rivoluzione cubana il partito ha avuto nella lista delle priorità la preparazione e la prevenzione; nella medicina come nella scienza così come nell’agricoltura e ovviamente anche per fronteggiare catastrofi naturali. Come afferma Gail Reed, direttore della rivista scientifica Medic Review, “in occasione di grossi disastri come l’uragano Katrina o la tempesta tropicale Harvey, Cuba è l’unica a registrare danni limitati alle proprietà e perdite umane”. Sempre la rivista scientifica ricorda come nel 2004 durante l’uragano Ivan il governo è riuscito a sfollare in quattro ore due milioni di persone. Numeri e dati non ideologie. Infatti grottesco fu come nel 2005, esattamente l’anno dopo, durante l’uragano Katrina Fidel Castro si propose di inviare 1.500 medici della brigata Henry Reeves per aiutare la popolazione di New Orleans, ma Bush con un gesto d’orgoglio rifiutò. Un gesto che costò caro in quanto l’ex Presidente fu ricoperto di critiche che arrivarono un po’ dai Repubblicani un po’ dai Democratici.

Pochi giorni dopo l’uragano Irma, a passeggio sul malecon dell’Habana (foto di Francesco Fusi)

Insomma, dopo questa digressione, esattamente 7 giorni dopo il mio arrivo, l’Isola era come nuova, le case, gli alberi sradicati, gli oggetti smarriti e tanto altro. Ognuno aveva talmente a cuore i beni e gli spazi pubblici che oltre l’aiuto più imponente offerto dal governo, quello che ha fatto la differenza è stata la collaborazione dei singoli cittadini. Non ho visto gente che con i fucili alla nuca spalava fango; piuttosto ho visto che nonostante i danni il cubano medio tra una spalata e l’altra beveva rum e ascoltava musica latina. Quel soggiorno, dopo questa esperienza, prese pieghe diverse. Il sole, il mare, le spiagge dalla sabbia bianca, i musei e i concerti improvvisati divennero la mia routine. Ma mi sono anche scontrato con realtà durissime: la carenza di cibo e gli stessi alimenti che ho mangiato per quasi 38 giorni: arroz, carne y pollo (riso, carne e pollo). L’insoddisfazione dei locali che possono accedere ad internet solo per poche ore al giorno; i salari estremamente bassi. Insomma è impossibile descrivere Cuba come un paradiso, sarebbe una beffa; ma vi inganna ancor di più chi con parole come dittatura o mancanza di libertà vuole descrivere quel meraviglioso pezzo di terra. A Cuba la libertà la conoscono bene e sanno che nonostante i tantissimi ma, in questi anni l’Isola, essendo l’unica al mondo ad avere un modello di società diverso, ha retto con estrema dignità, insegnando al mondo che l’autosufficienza, tranne se non abiti al polo nord, è possibile.  

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