Un reddito per chi non l’ha

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Possiamo solo immaginare il fremito che ha attraversato tante famiglie italiane che vivono in condizioni di difficoltà quando le cronache politiche hanno riportato le dichiarazioni di alcuni esponenti che, nel salutare favorevolmente l’incarico a Mario Draghi, non hanno perso l’occasione per ribadire le loro posizioni contro il reddito di cittadinanza. Questi detrattori non tengono conto che la fase economica e finanziaria che Draghi dovrà affrontare è segnata certo dalla crisi determinata dalla pandemia ma anche dalla possibilità per lo Stato di effettuare nuovi e sostanziosi investimenti; pertanto, l’abolizione di un reddito di sostegno, se dovesse entrare concretamente nel programma del nuovo governo, sarebbe un segnale fortemente ostativo per la ripresa che ha bisogno di tempi medio-lunghi e di pace sociale. Anche se, grazie all’opera del nuovo governo e nel giro di poco tempo, l’Italia diventasse un Paese virtuoso con servizi efficienti, con tutte le imprese industriali in grado di produrre innovazioni tecnologiche ed organizzative, se aumentassero i redditi da lavoro, se le università italiane iniziassero a finanziare ricerca e assumessero ricercatori giovani bravi e motivati, insomma se Draghi camminasse sulle acque, il problema della disoccupazione rimarrebbe. Quello della piena occupazione è un mito, ma quello della giusta occupazione deve essere perseguito e garantito. Tradizionalmente alle imprese private è stato lasciato il compito di creare sviluppo tecnologico e produttivo, convinti che questo avrebbe determinato maggiore ricchezza per tutti anche con l’aumento dell’offerta di lavoro. Allo Stato il compito di compensare gli squilibri, intervenendo nei processi di ristrutturazione, remunerando per un determinato periodo i lavoratori temporaneamente espulsi dal ciclo lavorativo, e di gestire l’assistenza alle famiglie più deboli.

Questo meccanismo non regge più. Sviluppo e innovazione non creano lavoro in quantità necessarie ad assorbire la disoccupazione crescente per la chiusura di aziende non competitive e non è altrettanto in grado di rispondere alla domanda di lavoro delle nuove generazioni. Questi cambiamenti, in atto da decenni, stanno innescando un processo di de-pauperizzazione della forza lavoro con conseguente aumento della povertà e delle disuguaglianze sociali.

Nel nostro Paese e in Europa esiste una tradizione antichissima di solidarietà e di mutuo soccorso. Dalle fondazioni religiose a quelle laiche e socialiste, fino ad arrivare alla scrittura di uno dei principi costituzionali che obbliga la Repubblica a rimuovere gli ostacoli economici che impediscono il pieno esercizio dei diritti di cittadinanza. Anche questo sistema ha bisogno di correttivi e di maggiori risorse ma rientra negli ambiti classici del solidarismo sociale.

Il provvedimento del reddito di cittadinanza emanato dal primo Governo Conte che, per esplicita dichiarazione dei proponenti, doveva risolvere il problema della povertà, è essenzialmente una misura a sostegno delle famiglie (è subordinato alla dichiarazione del reddito del nucleo familiare). La misura non si presta, così come è stata architettata, ad essere uno strumento valido di politica attiva del lavoro e, con appropriati aggiustamenti, sostegno agli individui, somiglia di fatto a quanto proposto dal giurista Luigi Ferrajoli in “Manifesto per l’uguaglianza”, edito da Laterza nel 2018: un reddito universale sganciato dai meccanismi del mercato del lavoro, dalle politiche attive del lavoro (ti do il reddito, se ti impegni alla ricerca di un lavoro e non puoi rifiutare le proposte che ti offriamo), una misura necessaria ed inevitabile visto che quanto oggi continuiamo a chiamare sviluppo economico non crea più aumento dell’occupazione. 

La questione riguarda anche il ruolo e le logiche dell’intervento pubblico che non può eludere un riesame del rapporto che le imprese “vincenti” instaurano con i contesti sociali in cui agiscono.

Il mondo dei senza lavoro e dei senza reddito si è allargato e ingloba oggi anche tanti giovani qualificati e persone, non più giovani, che pur avendo alle spalle un percorso professionale, si trovano nell’impossibilità di procurarsi un reddito da lavoro, tagliate fuori in modo più o meno definitivo. Una questione che riguarda anche il ceto medio, inteso come quella fascia di popolazione posta in una condizione di perenne fluttuazione tra consolidamento della posizione acquisita e perdita di benefici.

La combinazione tra i due aspetti, l’aumento esponenziale delle persone in condizione di disagio economico e di quelle private di una pur minima prospettiva, obbliga a operare scelte politiche che tengano nella giusta considerazione il superamento, o quanto meno la diminuzione del divario sociale, delle diseguaglianze economiche. Questione questa non più rinviabile e che riguarda tutti, sia il mondo delle imprese che gli ambiti di diretto intervento pubblico: se non si inverte la tendenza alla sua accentuazione in un mondo globalizzato, ogni paese, ogni sistema economico, ogni società si troverà in una condizione di instabilità e di incertezza permanente che non favorisce interventi di lungo periodo richiesti, per esempio, da una riconversione produttiva in chiave ecologica. Sono queste argomentazioni che continuamente trovano un riscontro nella cronaca. Si osservi l’andamento della vicenda dell’ILVA di Taranto. Si sono contrapposte per anni le questioni di salvaguardia della salute dei lavoratori e dei cittadini residenti in prossimità dello stabilimento e la continuità dell’attività produttiva. Salute contrapposta al lavoro: o muori di cancro o muori di fame. La questione rimane aperta e non si è ancora trovata una soluzione soddisfacente.

Per pigrizia, in buona o in cattiva fede, il confronto di idee sul presente e sul futuro del sistema economico lo si fa troppo spesso in modo generico e non sappiamo se il presidente incaricato Draghi, si farà carico di un progetto di lungo periodo all’insegna dell’inclusione.

Va riaperta una vera discussione nei partiti e nelle forze economiche e sociali sull’istituto del reddito di cittadinanza: uno strumento flessibile e bifronte, assistenziale per chi si trova senza reddito e di sostegno alle politiche attive industriali e del lavoro, non elemosina ai bisognosi perché è indispensabile a tutti anche a chi il reddito ce l’ha.

Non siamo al bar il giorno dopo una partita di calcio. Non indossiamo neanche per gioco i panni dell’allenatore, dell’arbitro o dell’attaccante di punta ma ha sempre senso avviare un confronto a margine di avvenimenti per incidere sulle scelte future e non lasciarle determinare da forze potenti e ben strutturate. Dei paletti dovranno pur essere messi e bisogna contribuire alla formazione di una opinione pubblica disponibile a riconoscere il valore economico e sociale di misure di somministrazione di un reddito anche a chi non ha un lavoro. Nessuna crisi può essere affrontata seriamente pensando di ricominciare azzerando processi e percorsi.

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