La cura degli anziani tra pubblico e privato

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Povero vecchio, disegno china su cartoncino di FZ

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Appena sale il contagio, si ripropone drammaticamente il problema delle Residenze Sanitarie per Anziani (RSA) dove il virus si trasmette con troppa facilità. Vogliamo ricordare l’indagine sull’epidemia da coronavirus nelle case di riposo dell’Istituto superiore di sanità, che, dal primo febbraio ai primi giorni di maggio del 2020, nelle Rsa ha riscontrato ben 9.154 decessi.

Gli ospiti di queste strutture hanno un’età elevata, il che li espone all’insorgere di malattie degenerative. In questo le RSA non possono più essere considerate come le Cenerentola della sanità e lasciate al quasi esclusivo appannaggio del solo settore privato. Gli ospiti di queste strutture sono non autosufficienti (RS), soffrono di disturbi cognitivi e demenze (R2D), sono non autosufficienti con disabilità fisiche, psichiche e sensoriali (RD3) (tra parentesi abbiamo riportato i codici di classificazione usati dal Sistema Sanitario Nazionale).  Patologie delicate che sono state inserite dal 2007 nei Livelli essenziali d’assistenza (LEA). La Regione Campania, con il Decreto Dirigenziale n.3 del 9 gennaio 2019, ha rinnovato l’accreditamento, le convenzioni, con il servizio sanitario delle RSA a gestione privata.

È opinione diffusa che tra le cause del facile propagarsi delle infezioni nelle RSA ci sia la carenza di personale.

Un grido d’allarme, peraltro, lanciato dalle stesse associazioni dei gestori privati, aggravato dalla progressiva emorragia di personale sanitario verso gli ospedali, tanto che in alcuni casi è stato necessario ricorrere all’intervento esterno, come i medici militari.

Le RSA sono sia pubbliche che private in convenzione e il personale medico e infermieristico sceglie di andare in ospedale. Questo perché vengono pagati meglio, hanno maggiori garanzie occupazionali, contrattuali e di carriera. Il passaggio avviene attraverso forme di mobilità e la partecipazione ai concorsi pubblici.

Le case di riposo in Italia sono 7.372, divise in strutture residenziali di assistenza per anziani (3.365), strutture residenziali di assistenza psichiatrica (2.035) ed altre strutture residenziali di assistenza per disabili fisici, psichici e per pazienti terminali.

Nelle strutture residenziali nel nostro Paese sono ricoverati 285 mila anziani over 65, di cui gran parte sono ultraottantenni (il 75 per cento), donne (il 75 per cento) e non autosufficienti (il 78 per cento). La cifra corrisponde all’1,9 per cento dell’intera popolazione over 65, secondo le stime fatte dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). Interessante dare uno sguardo alla distribuzione territoriale di queste strutture.

La distanza rispetto agli altri paesi è notevole. Il tasso di copertura dell’Italia è circa la metà di quello della Spagna, un terzo di quello tedesco, quasi un quarto rispetto a quello di Svezia e Olanda. Ci superano anche Giappone, Corea e persino gli Stati Uniti. Dietro a noi troviamo soltanto la Polonia.

Lo scarso sviluppo delle residenze per anziani si lega in parte alla centralità nel nostro Paese della permanenza a domicilio dell’anziano, sostenuta da reti familiari forti e, più di recente, dal forte ricorso a badanti, per lo più donne straniere, così come può essere dovuto anche alle necessità economiche di tante famiglie, soprattutto nelle regioni più povere che, trovandosi in stato di necessità, preferiscono accollarsi l’onere, non da poco, di tenere in casa l’anziano invalido ed usufruire della pensione e dell’accompagnamento per le esigenze familiari piuttosto che dover integrare magari una retta mensile alla RSA, ove il reddito dell’anziano non fosse sufficiente a coprire i costi abbastanza elevati soprattutto nelle RSA “ad alta intensità sanitaria”.

In ogni caso la carenza di politiche nazionali e di investimenti nel settore ha giocato un ruolo cruciale. Le tendenze degli ultimi anni evidenziano la criticità della situazione. Pur con un aumento degli anziani non autosufficienti presenti nel Paese, nel periodo compreso tra il 2009 e il 2020, sono diminuite soprattutto le persone autosufficienti, mentre è aumentata la quota di ricoverati ad alta intensità sanitaria.

Alla contrazione e fragilizzazione dei ricoverati si è accompagnata una forte sanitarizzazione. Infatti, nate come “centri di accoglienza” per anziani non autosufficienti, visto che gli ospiti sono sempre più vecchi e con patologie gravissime, le RSA si sono trasformate di fatto in ospedali di lunga degenza. Ciò a fronte di una riduzione significativa (pari al 15 per cento) del personale medico, compensato da un aumento di pari proporzioni del personale adibito alla cura delle persone, inoltre negli ultimi tempi, come sopra già riportato, un peso rilevante ha avuto la migrazione verso gli ospedali del personale infermieristico. 

Il paradosso è all’evidenza sanitaria e assistenziale, l’essere sempre più strutture ospedaliere di lunga degenza, il personale medico e specialistico invece di aumentare è diminuito, e l’assistenza è ridotta nei contenuti: l’ospite è accudito, lavato e controllato e gli si dà da mangiare e dormire. Per assurdo ai pazienti considerati “incurabili”, l’assistenza e la cura sono affidate agli inservienti o al personale di bassa qualificazione professionale.

Sul versante della condizione del personale sempre più esteso e diffuso è l’utilizzo di contratti a tempo indeterminato, aumentato più del 50% (dati ISTAT 2016), e la diminuzione dei costi per le figure mediche, meno del 27%. In sintesi, ad un aumento della domanda sanitaria specialistica è corrisposta una diminuzione dell’offerta professionale e del non adeguamento tecnologico delle attrezzature.

Saranno le autorità competenti a chiarire cosa effettivamente è accaduto all’interno delle residenze per anziani nei giorni della diffusione del Covid-19, se ci sono state responsabilità soggettive. Si può comunque supporre che le condizioni strutturali del sistema non abbiano favorito l’applicazione di standard qualitativi adeguati alla tutela sanitaria di una platea di ricoverati in condizioni di grande fragilità fisica, così come inadeguata è la qualificazione degli operatori coinvolti nelle attività di assistenza e cura. Ciò deve far riflette anche sull’importanza di avere un sistema efficace di controlli del rispetto degli standard che consentono l’accreditamento da parte delle ASL.

Le residenze per anziani, le Case protette, gli Hospice ed in generale le strutture che svolgono attività̀ di tipo residenziale sono diventate un grande business per gli investitori privati. Secondo il Ministero della Salute, dal 2007 al 2017 sono cresciute in totale del 44%, passando in dieci anni da 5.105 a 7.372. La crescita ha visto in particolare la presenza di privati nella loro gestione. Mentre nel 2007 le residenze assistenziali private erano il 72,8% del totale, nel 2017 sono diventate 6.070, cioè l’82,3% del totale.

Inoltre le case di riposo gestite solo dai Comuni sono il 26,7% sul totale; il 48% da associazioni no profit, come cooperative o fondazioni religiose, ed il restante 25% da società private a scopo di lucro. Le RSA sono inoltre diventate un business importante anche per grandi holding internazionali. Tra le società private con una maggiore gestione di Rsa a livello nazionale troviamo il Gruppo Korian Segesta che, anche grazie all’acquisizione di 27 diverse società, gestisce 47 residenze per anziani per un totale di circa 4.800 posti letto (ha residenze anche in Francia, Germania, Spagna, Olanda e Belgio). L’intero Gruppo Korian ha un fatturato consolidato di poco meno di tre miliardi di euro.

Un altro gruppo presente in Italia è quello della Holding Cir, al cui interno troviamo la famiglia De Benedetti, con Rodolfo presidente esecutivo. La Cir, oltre a controllare tra le altre cose il gruppo editoriale GEDI (fino al 2020), controlla al 59,5% il Gruppo Kos, presieduto da Carlo Michelini, che a sua volta gestisce 92 strutture in Italia e 48 in Germania, per un totale, nel nostro Paese, di circa 87mila posti letto. Le strutture sono dislocate in 13 diverse regioni e nel 2019 hanno generato ricavi  in aumento del 9,2% pari a 595,2 milioni.

L’emergenza di oggi impone un ripensamento radicale del sistema e un impegno più incisivo del servizio pubblico che deve investire in strutture a gestione diretta, per garantire la multidisciplinarietà degli interventi specialistici e per evitare che i costi di questi si possano scaricare sui pazienti, con l’aumento delle rette.

Oltre alle questioni immediate servono sistemi più efficaci di accreditamento, monitoraggio e controllo. In un’ottica d’integrazione tra ospedale e territorio va posto l’obiettivo di ridurre al massimo la istituzionalizzazione in generale degli anziani. Ciò può avvenire potenziando e sperimentando forme di residenzialità alternativa, come cohousing e appartamenti solidali; favorire la permanenza delle persone anziane nelle proprie case, assistendole in modo adeguato con un continuo e idoneo ausilio del servizio pubblico. Le RSA dovrebbero essere viste più come delle case di transizione, dei luoghi dove trovare ristoro o assistenza ma che non debbano entrare in contrasto con l’assistenza anche nelle abitazioni degli anziani, dei luoghi, quindi, “non di mera custodia degli anziani”.

La questione edilizia e la proprietà immobiliare delle RSA è un altro argomento che non può non essere preso in considerazione. Preferire strutture con meno posti rispetto ai grandi Centri significa ridurre l’investimento nella costruzione di grandi strutture, ma consentire una loro più diffusa presenza territoriale.

Il devastante impatto che il coronavirus ha avuto in tante RSA ha evidenziato che le stesse non erano preparate minimamente ad un evento così critico, ma soprattutto non hanno ricevuto un adeguato supporto dalla Sanità Pubblica che colpevolmente si è fatta sorprendere senza gli strumenti necessari per sopperire all’emergenza.

In merito il Ministro della salute Speranza ha incaricato una commissione di esperti di “formulare proposte per la riorganizzazione del modello assistenziale sanitario e sociosanitario dedicato alla popolazione anziana, al fine di favorire una transizione della residenzialità a servizi erogati sul territorio e di ridefinire il continuum assistenziale, suggerendo servizi, modalità, strumenti innovativi e digitali”. Un percorso che non può essere interrotto con il cambio di guardia alla guida del governo del Paese.

Pryamo

1 commento su “La cura degli anziani tra pubblico e privato”

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