È possibile una tolleranza reciproca? Una rilettura di Giovanni Jervis

tempo di lettura: 4 minuti

Secondo l’ideologia dei relativisti è possibile una tolleranza reciproca fra gruppi e popoli, ma è davvero così? In questi tempi malconci, quando tutto appare senza storia e senza memoria, una rilettura del compianto Giovanni Jervis, ordinario di psicologia dinamica presso l’università di Roma La Sapienza, scomparso nel 2009, e in particolare del suo testo Contro il relativismo, pubblicato nel 2005, può aiutarci a riaprire una riflessione.

Il problema della tolleranza reciproca fra gruppi e popoli non può essere risolto facilmente: le radici dell’intolleranza sociale sono legate a fattori naturali, un normale atteggiamento d’esempio è constatabile in molti fenomeni che sono tutti i giorni sotto i nostri occhi e cioè le moderne fazioni che, contrapponendosi fra loro in un terreno simbolico, costituiscono l’universo del tifo calcistico di cui si nutre gran parte della cultura popolare in paesi come l’Italia.

Scrive Jervis: “La diffidenza verso i gruppi estranei nella sua forma più semplice ha una funzione adattiva poiché per migliaia di anni trattare gli sconosciuti con cautela è stato un modo per sopravvivere e anzi ce lo insegnano concordi gli psicologi sociali: la tendenza a considerare gli stranieri proiettando su di essi una immagine di diversità è inscindibile dal sentimento di appartenenza.” Evidentemente il bisogno di appartenere è intrinseco negli umani ed è quindi universale.

Al di fuori della cerchia limitata delle parentele esiste infatti un’area costituita da amici e da tutti gli individui che hanno le nostre stesse convinzioni, parlano come noi e hanno i nostri stessi interessi. Essi ci fanno capire, nel modo stesso di rivolgersi a noi, che tipo di persone siamo, si potrebbe dire che è proprio come guardarsi allo specchio. Per usare le parole di Jervis, “Nessuno può fare a meno di una solida definizione di sé a meno di rischiare seri problemi psichici. Un rispecchiamento collettivo è necessario per costruire un’immagine adeguata della propria persona.” Solo chi interagisce con noi può comprendere e vedere realmente chi siamo. È per motivi assai complessi che abbiamo bisogno di un gruppo che ci protegga e ci dia forza di identità quasi come i branchi di lupi. Questa esigenza comporta pur sempre l’inconscio o conscio segnare un confine, oltre il quale si trovano le persone che non consideriamo simili a noi per vari motivi.

Il legittimo bisogno di provare un sentimento di fierezza per la propria identità è inscindibile dal credere che gli altri al di fuori di “noi” siano in qualche modo inferiori oppure, addirittura, potenzialmente ostili: per Jervis “una qualche predisposizione alla belligeranza sembra connaturata al sentimento stesso dell’identità di gruppo.”

Oggi esiste uno stile di vita nuovo, fondato quasi del tutto su impreviste relazioni di dialogo e permette la possibilità di una capacità di intesa fra persone appartenenti a popoli e culture diverse, lontane tra loro. A controbilanciare la tendenza a chiudersi in raggruppamenti settari, il mondo informatizzato del nostro tempo con la tecnologia ed internet impone una fiducia indiscussa che trascende quel sentimento innato. Questa nuova era tecnologica, fatta di comunicazioni istantanee, esige il dare fiducia a persone che non abbiamo mai visto e che vivono a migliaia di chilometri di distanza. Questa fiducia gratuita fa parte di vari momenti delle nostre giornate come ad esempio: quando acquistiamo un biglietto, un libro, un disco o quando stabiliamo accordi lavorativi o più banalmente quando partiamo per un viaggio aereo e siamo sicuri senza alcun dubbio che piloti e tecnici siano persone istruite e affidabili, che sappiano fare bene il loro mestiere, anche se non sappiamo nulla di loro.

Secondo Jervis però vi sono delle condizioni perché queste tolleranze e fiducie abbiano luogo: dovrebbero esserci buone possibilità di intesa nel vasto ambito definito “mondo civile”, è necessaria una coscienza della realtà particolare e questo non accade ovunque, ma accade in modo crescente dove esiste un buon livello di istruzione, dove si è più aperti mentalmente ad accogliere la cultura scientifica e dove si sia stabilmente interiorizzata un’etica della responsabilità individuale e sociale; secondo lo scrittore, “in questi casi le strategie di fiducia funzionano così bene da prevalere sui solidarismi e settarismi.” Ma il peso di questi continua a ripresentarsi e alcune influenze ci giungono direttamente dal passato: per i Romani ad esempio, i barbari (inizialmente) avevano la connotazione di una umanità incompleta, quasi come se non fossero veramente umani ma bestie senza alcun diritto di parola, e tuttora il termine contiene una connotazione antropologica sprezzante.

Ci sono molte forme nel mondo di anti-egualitarismo tradizionalistico di supponenza e di integralismo religioso che rendono quasi utopiche le idee di tolleranza reciproca. Queste sono presenti sia all’interno dell’area occidentale (e sono ben visibili in Italia) sia al suo esterno e conducono a forme di chiusura mentale, ciò rende complicato l’abbandono di ogni presunzione di superiorità e poter accogliere stranieri con le loro religioni e costumi, che siano essi immigrati, nuovi conoscenti o semplicemente diversi da noi per orientamenti sessuali o ideologici, diventa una sfida ardua. Jervis cita alcuni esempi: “appartengono non a una sola ma a varie religioni coloro che negano la piena eguaglianza dei diritti delle donne, negano dignità agli omosessuali, si battono affinché la mente dei bambini venga plasmata da particolari credenze teologiche fin dall’inizio della scuola.”

Proprio nella nostra società occidentale non ci si deve stupire se alcune fra le maggiori difficoltà da affrontare non nascono dalle idee dei nuovi immigrati non cristiani ma dalla persistenza, all’interno di un’antica tradizione cristiana, di ideologie e pregiudizi, di paraocchi e di ristrettezze psicologiche che sono inculcati attraverso la storia, i miti e le religioni.

L’atteggiamento relativista, con le sue idee liberali di accettazione e noncuranza delle effettive problematiche sociali, porta non solo a facili errori di giudizio ma anche a costruire aree protette, a tutelare ambiti ideologici che non possono venir messi in discussione, secondo l’idea che ogni conoscenza è incapace di attingere a una realtà oggettiva assoluta; ciò mette in campo la possibilità che tutto sia lecito e probabile e che ogni pensiero debba essere integrato ad un concetto universale di società unitaria. L’idea in breve è che ognuno rimanga al suo posto, che quel che è stato creato resti così, che ogni popolo resti legato alle proprie tradizioni (con tanto di errori, aggiungerei). C’è il concreto rischio che il relativismo rafforzi tout court le diversità a discapito del diritto universale all’uguaglianza, alla dignità.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Torna in alto