Tra tragedia e speranza: le carceri dell’America Latina all’epoca del Covid-19

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Fonte: pixabay.com

Nelson Mandela diceva che “Non si conosce veramente una nazione finché non si è stati nelle sue galere”. Da sempre la questione delle carceri è stata affrontata da numerose organizzazioni ed ONG che difendono i diritti umani, in primis Amnesty International, ma anche Human Rights Watch o il Comitato dei diritti umani dell’Onu, per citarne alcune.

In tutto il mondo, lo stato degli istituti penitenziari è considerato un indice sociale rilevante, oltre che un livello di progresso a cui una società può giungere; esistono infatti esempi virtuosi come quello norvegese, dove l’idea predominante è che il detenuto “deve essere reintegrato nella società con una forma psico-fisica migliore di come è entrato”. Il carcere di Halden, in Norvegia, è stato ritenuto tra le prigioni più “umane” del mondo. Si ritiene infatti che la vita in carcere non dev’essere troppo diversa da quella fuori, eccetto per la libertà di movimento. Il detenuto è già privato di uno dei diritti fondamentali: la libertà. Il carcere dev’essere dunque un luogo di rieducazione. Lì non esistono torri di controllo, sbarre alle finestre, guardie armate.

Senza dubbio questi modelli quasi utopistici possono confortarci, ma a parte rari casi, quasi ovunque il sovraffollamento delle carceri ed in particolare la mancanza di strumenti rieducativi per la vita dei detenuti continuano ad essere la prassi e sono al centro del dibattito sociale.

Con il dilagare dell’epidemia di Covid-19, la situazione nelle carceri è diventata però prioritaria all’interno della stessa gestione dell’emergenza: un contagio all’interno di queste strutture può avere infatti un effetto devastante sulla popolazione carceraria.

Il Sottocomitato dell’ONU per la prevenzione della tortura ha invitato i governi a ridurre il numero di persone all’interno delle prigioni laddove sia possibile: in particolare coloro che sono stati detenuti arbitrariamente o che si trovano in regime di detenzione preventiva. Tra le categorie più vulnerabili, oltre agli anziani e alle donne incinte, è stato fatto riferimento anche a persone con disabilità, immunodepresse o che presentino malattie croniche, tenendo in considerazione la durata della pena, la gravità del delitto e il rischio che comporterebbe per la società il loro rilascio.

In un’emergenza sanitaria della gravità che stiamo vivendo, ai detenuti devono essere assicurati l’accesso ad acqua potabile, condizioni di igiene e attività informative sull’epidemia. Devono essere adottati particolari protocolli sui test da effettuare non solo ai detenuti ma anche al personale penitenziario e bisogna fornire servizi di assistenza medica e psicologica a tutti i reclusi. Nello specifico, osserviamo questo fenomeno con una lente di ingrandimento sull’America Latina, dove la situazione è particolarmente allarmante.

Tra i cinque paesi con le percentuali più alte di sovraffollamento delle carceri tre si trovano in America: Haiti, Bolivia e Guatemala. L’insalubrità e il sovraffollamento dei centri di detenzione in America Latina può incidere gravamente sulla salute dei reclusi e della popolazione in generale, secondo Human Rights Watch.

La mancanza di misure di protezione dei prigionieri ha fatto nascere rivolte e tentativi di fuga, causando decine di feriti e circa 40 morti, in Colombia, Perù, Brasile, Venezuela ed Argentina. Per evitare l’espansione dell’epidemia, infatti, numerosi paesi dell’America Latina hanno limitato i diritti dei detenuti, proibendo le visite familiari, diminuendo e spesso eliminando del tutto le ore dedicate agli svaghi, incidendo dunque sulla salute, anche psicologica, dei detenuti. I prigionieri hanno denunciato mancanza di assistenza medica e scarsa igiene, fattori ancor più importanti durante un’emergenza sanitaria come quella che stiamo affrontando

Il 16 marzo scorso, nella regione di San Paolo in Brasile, centinaia di detenuti sono fuggiti in seguito all’annuncio delle autorità di cancellare le uscite temporanee. Allo stesso modo, in Venezuela, circa 84 prigionieri hanno cercato di fuggire, ed in seguito ad un inseguimento da parte della polizia penitenziaria 10 di loro sono stati uccisi.

Proprio dall’America Latina però stanno anche arrivando i primi segnali “positivi” nella gestione dell’emergenza a livello carcerario, in particolare da Cile, Argentina e dallo stesso Brasile. Pochi giorni fa, il 10 aprile scorso, le autorità della provincia argentina di Buenos Aires hanno deciso infatti di trasferire circa 900 detenuti agli arresti domiciliari, per cercare di diminuire il rischio di contagio da coronavirus, soprattutto nelle fasce più deboli dei prigionieri: adulti sopra i 60 anni, donne incinte o con bambini piccoli. Il requisito è aver commesso delitti minori e non violenti. La Procura Penitenziaria della Nazione, che si occupa dei diritti dei prigionieri, ha chiesto che questa decisione, al momento limitata alla sola provincia di Buenos Aires, venga estesa anche ai detenuti per delitti federali, cosa che farebbe aumentare il numero di arresti domiciliari a circa 2.000 persone, più del doppio.

Passando al Cile, il governo di Sebastian Piñera ha annunciato un progetto di legge di indulto per concedere gli arresti domiciliari ai detenuti più anziani oltre i 75 anni, che non scontano gravi condanne o che sono più esposti al contagio per problemi di salute. In più ha creato un Comitato d’emergenza che si occuperà delle misure preventive nelle carceri contro il coronavirus. Il problema è sorto poiché il Presidente cileno stava valutando se estendere questo provvedimento anche a coloro che erano stati condannati per crimini contro l’umanità e violazioni dei diritti umani, in particolare nel carcere di Punta Peuco, che ospita appunto gli ex militari condannati durante la dittatura di Augusto Pinochet. Il disegno di legge, che era già stato presentato nel 2018, è stato ripreso da Piñera con il nome di “Legge umanitaria”. C’è stata però una forte opposizione di molti parlamentari, anche all’interno del partito del Presidente Piñera: “Chile Vamos”. Il sottosegretario alla giustizia durante il primo mandato di Piñera, Juan Ignacio Piña, ha dichiarato a riguardo che “lo Stato, quando priva i detenuti della libertà, assume la loro custodia e diventa loro garante. E quando capisce che non è capace di proteggerli in modo adeguato in una pandemia, deve adottare delle misure per tutelare la loro salute”. Il disegno di legge è stato alla fine approvato, escludendo però i colpevoli per delitti contro l’umanità.

In Brasile, infine, è stato chiesto da parte del Consiglio Nazionale di Giustizia di limitare ai casi di “massima eccezione” gli ordini di detenzione preventiva e di cercare misure alternative soprattutto per le persone più a rischio o che si trovano in centri di detenzione sovraffollati. Lo scorso 26 marzo, infatti, il Tribunale Superiore di Giustizia di Rio de Janeiro ha ordinato la detenzione domiciliare per coloro che abbiano più di 60 anni.

In questo scenario poi numerosi detenuti stanno collaborando all’interno delle carceri per fronteggiare l’emergenza sanitaria in corso: in Ecuador e in Cile stanno dando il proprio contributo nella costruzione di bare per le vittime del Covid-19, soprattutto per i ceti più poveri che, nella tragicità della situazione, non hanno la possibilità di pagare la sepoltura dei propri cari. A Santiago i detenuti stanno invece producendo centinaia di mascherine: solo da inizio aprile ne sono state approntate più di 2.400. Pur nella drammaticità della situazione, questo momento potrebbe diventare dunque l’occasione per riflettere sugli strumenti correttivi che lo Stato può adottare, cambiando il paradigma di riferimento nella gestione degli istituti penitenziari e ripensando dunque il concetto stesso di carcere. Un magistrato di un ufficio di sorveglianza pronunciò, durante una conferenza sul reato di tortura, delle parole molto significative: “La pena più grande un condannato la subisce appena entra in carcere: la privazione della propria libertà. Già da sola, questa pena è tra le più terribili che un essere umano debba affrontare. Non occorre dunque peggiorare questa condizione, con trattamenti poco dignitosi o addirittura inumani. Il carcere deve diventare uno strumento rieducativo per inserire nuovamente il detenuto nella società, catartico ma non punitivo”.

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