Ricordando Enzo Jannacci

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Enzo Jannacci (Fonte: Wikipedia)

Il prossimo 29 marzo ricorre il settimo anniversario della scomparsa di Enzo Jannacci. La sua dipartita non suscitò nell’opinione pubblica un compianto paragonabile a quello dedicato nel 1999 a De Andrè, o nel 2012 a Lucio Dalla e neppure allo smarrimento che suscitò la prematura ed improvvisa morte del nostro Pino Daniele. Certo, questi cantautori erano veri e propri monumenti e si verificò in occasione della loro dipartita quasi un lutto nazionale. Più circoscritto fu il commiato a Giorgio Gaber la cui figura artistica si era via via ritirata su posizioni meno popolari sia sotto il profilo musicale che dei contenuti sempre più disillusi e anarcoidi. Gaber aveva però alle spalle la notorietà acquisita lungo quasi un ventennio anche come personaggio televisivo di successo, benché nel tempo si fosse affievolita.

La scomparsa di Enzo Jannacci non suscitò invece che un distratto anche se rispettoso saluto. D’altra parte, diversamente da Gaber, che ebbe fino alla fine un sia pur ristretto nucleo di estimatori, Jannacci non aveva un suo pubblico di riferimento. Diventa quindi doveroso tentare di riconoscere a Jannacci il posto che merita nella musica italiana in ragione della sua unicità, che molti ignorano o hanno dimenticato, rimandando alla esauriente voce di Wikipedia la conoscenza dei suoi dati biografici e professionali (sia come cantautore che come cardiologo).

Dopo una iniziale collaborazione in qualità di tastierista con Celentano e Gaber, all’epoca rockettari a tutti gli effetti, le prime canzoni approdate con qualche successo alla radio e alla TV non potevano che apparire bizzarre e provocatorie rispetto al gusto allora corrente. La più famosa fu certamente “L’Armando”, del 1964 (testo di Dario Fo e musica di Jannacci), il cui soggetto, sarcastico fino alla crudeltà, aprì la strada a un filone di canzoni più o meno provocatorie: “Aveva un taxi nero”, truce come una scena del Grand Guignol; “Faceva il palo”, degno di figurare nel teatro dell’assurdo (testo). Le stesse atmosfere, pur non sempre malavitose, si ritrovano in molte delle altre canzoni presenti nei suoi due primi album, “La Milano di Enzo Jannacci” del 1964 e “Sei minuti all’alba” del 1966: quasi tutte vedono Jannacci tra gli autori del testo o della musica e talvolta di entrambi.

L’ambiente artistico nel quale Jannacci lavora è quello del mitico “Derby”, tempio del cabaret milanese, intorno al quale orbitano Dario Fo, Giorgio Strehler, i Gufi, Cochi e Renato, Bruno Lauzi, autori come Franco Nebbia, Walter Valdi, Beppe Viola e, fino agli anni ’70, una schiera impressionante di comici, cantanti e cantautori. Trattandosi di un punto di incontro cittadino, il linguaggio nel quale si esprimono i frequentatori del Derby poggia non poco sul dialetto milanese ed infatti ne fanno uso numerose canzoni di Jannacci. Ma Milano era all’epoca la capitale culturale e quindi la cosa non appariva affatto provinciale.

Ma, al di là dei testi paradossali e delle musiche sempre orecchiabili, facili e popolari, ciò che colpiva era l’interpretazione di Jannacci: già il suo modo di presentarsi da studente universitario occhialuto e timido suscitava curiosità. Poi se ne scopriva il canto disarticolato, spesso deliberatamente fuori tempo, con incongrue impennate della voce, come ne “L’Appassionata”. Altrettanto incoerenti erano i movimenti che accompagnavano l’esibizione, passi di danza appena accennati e quasi sempre fuori tempo, da marionetta. Insomma una vocalità smarrita, balbettante, sostenuta, anzi spesso contraddetta, da una fisicità irrequieta e da un’espressione del viso che andava dal serio al tragico. Questo modo di rappresentare e di rappresentarsi esemplificava, credo consapevolmente, il senso di diffuso straniamento della società italiana alle prese con la difficoltà di adattarsi all’industrializzazione, che andava modificando i comportamenti preesistenti: proprio a qualche anno prima risalgono i film di Michelangelo Antonioni (“L’Avventura”, “La Notte”, “L’eclisse”), che analizzavano l’alienazione, lo straniamento e l’incomunicabilità.

Ma altrettanto forte era il messaggio di solidarietà nei confronti dei diseredati e degli emarginati, che insieme alla consueta esaltazione del surreale e dell’assurdo, è rintracciabile nella sua canzone più famosa, che riscosse nel 1968 un buon successo di pubblico, “Vengo anch’io – No tu no”. La successiva attività artistica, ripresa verso la fine degli anni ’70 dopo una pausa di sette anni durante la quale perfezionò gli studi di cardiologia (per un certo tempo si trasferì in Sudafrica dove entro nell’équipe del dr. Barnard, primo cardiochirurgo a realizzare un trapianto di cuore), fu comunque intensa: ci furono nuove canzoni, apparizioni televisive più frequenti di quanto non lo fossero state quelle degli anni Sessanta, osteggiate per i contenuti che contraddicevano la linea dell’establishment televisivo dell’epoca. Jannacci comparve anche in alcuni film di uno dei quali, “L’udienza”, diretto da Marco Ferreri nel 1971, fu addirittura protagonista. Tutte queste attività, il loro valore artistico, l’impegno civile e le collaborazioni con grandi personaggi della musica, dello spettacolo e della cultura italiana di quegli anni, sono ampiamente riportate nelle numerose biografie presenti in rete (Wikipedia, Enciclopedia Treccani, ecc.). Nel ricco scenario della sua attività artistica spiccano però due canzoni nate, sia nel testo che nella musica, dalla sua vena poetica, forse sottovalutata. La prima, “El purtava i scarp del tennis” (della quale si riporta anche la traduzione dal meneghino), è un autentico capolavoro, un esempio di rispetto umano e di “pietas” verso i derelitti che non trova molti riscontri nella canzone italiana. La seconda, “Sfiorisci bel fiore”, è un commosso omaggio agli operai italiani che avevano perso la vita in Belgio, nella miniera di Marcinelle, nel 1956. E forse questa sofferta partecipazione al dolore degli altri rappresenta la chiave più giusta per interpretare un personaggio lontano dal fragore del nostro tempo, un antidivo che nell’ultimo periodo della sua non lunghissima esistenza manifestava finalmente la compostezza, la sobrietà e la saggezza che probabilmente lo avevano da sempre accompagnato.

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