Come (non) torneremo alla normalità

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Dipinto di A.R., Donna sotto la pioggia (Foto Archivio Capuano)

Noi viviamo da diverse settimane in una curiosa situazione. Siamo sequestrati in casa e le misure per contenerci in casa diventano sempre più rigorose. D’altra parte, nessuno di noi può dire quando la situazione cambierà. A maggio? A giugno? Ne siamo sicuri?

Le forze politiche si dividono tra quanti vorrebbero “chiudere tutto”, provvedimento che potrebbe essere sensato se avesse tempi certi (“chiudere tutto per due settimane”). Ma non lo è quando non si sa quando l’allerta diminuirà. Finiremmo per morire di fame per non morire di coronavirus. Ma anche l’opposta posizione di lasciare qualche spazio per un minimo di vita economica è poco rassicurante. A parte che gli svantaggiati (bar, ristoranti, ambulanti, commercianti di beni non indispensabili) potrebbero chiedere che cosa hanno fatto di male per essere esclusi da una vita che altri continuano normalmente a vivere, il fatto che si dia per scontato che l’unica alternativa a chiudere tutto è semplicemente il calarsi una mascherina sul viso e fare le stesse cose di prima, solo mascherati, è veramente sconfortante.

Esiste una ipotesi alternativa? Sì, esiste ed è stabilire i protocolli di sicurezza necessari per gestire una fabbrica o un negozio in tempi di contagio. Saranno protocolli complicati perché probabilmente occorrerà prevedere dei diversi stati di allerta (dalla allerta bassa alla chiusura totale) e probabilmente costosi da adottare. Ma sono indispensabili, a parere di chi scrive, sia per permettere di uscire dalla catastrofe, se il contagio diminuirà lentamente, sia per non ripetere le vicende di quest’anno se il coronavirus o un suo discendente-mutante si ripresentasse l’anno prossimo. Certamente, saremo meglio attrezzati per affrontarlo anche a livello medico. La speranza maggiore viene da sperimentazioni farmacologiche come quella dell’équipe Cotugno-Monaldi-Pascale. Se avremo farmaci che abbattano la necessità di intubare, rendendo l’infezione meno letale e più gestibile dal servizio sanitario nazionale, potremmo avere una stagione di “allerta bassa”. Ma è difficile che sia proprio di “allerta zero”. Vediamo dunque con quali strumenti si potrebbe affrontare la transizione dall’allerta massima di oggi ad un’allerta meno forte di domani e, temo, anche di dopodomani.

Come sappiamo ormai a iosa, il coronavirus si diffonde attraverso il contatto tra esseri umani – basta essere a meno di un metro di distanza – ma anche attraverso oggetti toccati sia dal contagiante che dal contagiato (compreso il suolo che calpestano). Il numero di minuti o di ore che occorre passino perché l’oggetto mediatore cessi di svolgere le sue nefaste funzioni resta in discussione: forse ore se non vi è disinfestazione. Non basta dunque distanziare le persone, occorre anche che non tocchino gli stessi oggetti o li tocchino dopo un congruo numero di tempo o ancora che questi oggetti vengano disinfettati tra un contatto e il successivo.

Per quanto riguarda il primo punto, occorre stabilire i turni per qualsiasi occupazione di spazio. Ci lasciano andare al supermercato perché non ne si può fare a meno, ma si tratta pur sempre di un contatto rischioso, per quante mascherine e guanti vogliamo indossare. L’ideale sarebbe fare il contrario di quanto è stato proposto finora: non restringere l’orario di apertura del supermercato, costringendo i clienti ad ammassarsi e a toccare l’uno dopo l’altro le stesse merci. Va fatto il contrario: negozio aperto magari il più possibile (anche 24 ore su 24 se è economicamente sostenibile), con turni prefissati da casa, per via computer o smartphone. Ingresso a 10 minuti di distanza l’uno dall’altro e obbligo di comparire solo al momento del proprio turno, senza accalcarsi davanti al negozio. La mossa successiva è permettere di toccare solo una parte limitata delle merci, passare spesso disinfettanti, mettere distanze adeguate tra il cassiere e il cliente. Resta il problema costituito dal fatto che il denaro contante è un magnifico mezzo di contagio, bisognerebbe limitarne la presenza nei pagamenti, e ovviamente trovare il modo di disinfettarlo ogni tanto.

Una volta stabilita una simile procedura di sicurezza per il supermercato e il tabaccaio, non si vede però che cosa abbiano fatto di male la cartoleria o il negozio di vestiti per essere tenuti chiusi per sempre. La tesi secondo la quale, durante un’emergenza, si ha bisogno soltanto di provviste viene meno se l’emergenza dura mesi. Veramente i rifornimenti per la stampante non sono un genere di prima necessità per chi telelavora? Si dovrebbe dunque permettere di riaprire questi negozi dopo ispezione che prova che i protocolli di sicurezza sono rispettati. Dico di più. Il parco pubblico o la biblioteca comunale dovrebbero riaprire con le stesse condizioni e mantenerle fino al cessato allarme o fino al passaggio (forse più probabile) a modalità di minore allerta e dunque minore rigidità delle normative di distanziamento: uno alla volta (o pochi alla volta con ingressi distanziati) e tempi di apertura congrui ad offrire il servizio.

Se, come sospetto, dopo il “picco”, ci sarà una decrescita del contagio più lenta che in Cina, dove pure le misure di sicurezza sono a tutt’oggi (22 marzo) imponenti, si dovrà iniziare a porre la questione dell’estensione delle norme di transizione perfino a quei tipi di attività economica che oggi ci appaiono più tabù di altri. Come non dare ragione a De Luca quando osserva che l’invio di cibo a domicilio significa mani che si toccano, soldi che passano, dunque opportunità di spargimento del virus? Ma sono proprio impensabili tecnologie che neutralizzino questo pericolo? Anche qui potrebbe diventare una sorta di estensione del protocollo HACCP la procedura per portare cibo a domicilio in periodi di contagio: contenitore sterilizzato toccato da mani inguantate, inserimento in un contenitore che il portatore deve prendere con guanti sterili da un solo lato e che viene aperto dal consumatore da altro lato, in modo che il prodotto non sia mai toccato da altre mani se non da quelle che lo hanno confezionato e dal consumatore. Sarebbe certamente un incremento notevole dei costi per l’acquisto della pizza serale, ma il primo pizzaiolo che riapre con questi accorgimenti farà comunque del denaro. E anche qui il meccanismo dei turni e delle prenotazioni – e della disinfezione di ogni tavolo tra un fruitore e un altro – potrebbe perfino riportare in vita la possibilità di andare al ristorante o di sedersi a un bar.

Sto fantasticando. Non sono un epidemiologo e dunque sto facendo castelli in aria. Ma vi è qualche competente, disperso in qualche ministero, che sta invece lavorando con serietà scientifica a questo HACCP esteso per permettere di riaprire i negozi? Se non c’è, caro presidente Conte, perché non mettercelo subito e con urgenza? È un suggerimento del tutto amichevole. Guardi che non è detto che, passato il picco, tutto torni normale presto. E non è detto che a novembre non si ricominci ad avere una nuova diffusione del coronavirus e magari dei suoi discendenti-mutanti. Magari avrà minore velocità (perché molti si saranno immunizzati) e sicuramente avremo attrezzature ospedaliere e soprattutto buoni medicinali per gestire meglio la malattia. Ma anche così non credo che sia né intelligente né moralmente lecito dire: se non ammazza tanto come prima, lasciamolo pure diffondere, povera creatura. Dovremo dunque restare in una sgradevole situazione intermedia tra l’urgenza di immunizzarci, cioè di mettere barriere tra gli esseri umani, e l’urgenza di non cadere in una malattia auto-immune che uccide il paziente dall’interno per salvarlo da contagi esterni. Consultate su questo pericolo un bel libro di qualche anno fa di Roberto Esposito, Immunitas (Einaudi, Torino, 2002). La “distanziazione” è un grande processo di immunizzazione basata sul presupposto che ogni essere umano è pericolosissimo per la salute di ogni altro, una variante medica del pensiero di Hobbes. Ma non dimenticate che gli strumenti – le tecnologie – non servono necessariamente solo a tenerci abbastanza lontani gli uni dagli altri, potrebbero anche permetterci di sopportarci e tollerarci. Oltre che di scambiarci idee come appunto quella che sto usando io per scrivere e voi per leggere.

3 commenti su “Come (non) torneremo alla normalità”

  1. Luigi imperato

    Lo scenario delineato dagli autori, per quanto non propriamente rassicurante, ha il grande merito di immaginare una modalità di convivenza possibile con il virus, qualora dovesse prolungarsi il tempo di permanenza del contagio. Quel che è certo è che il coronavirus ci pone dinanzi al compito di immaginare paradigmi sociali, politici, economici, culturali del tutto nuovi. Gli autori raccolgono questa esigenza dando un primo, importante contributo in questa direzione.

  2. Scenario davvero plausibile e molto interessanti le proposte degli autori, laddove si verificasse la possibilità (non certo da scartare) di una lunga convivenza col virus.

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