E se durasse? Il coronavirus e la socialità “distanziata” del XXI secolo

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Fonte: pixabay.com

L’articolo provocatorio di Giuseppe Capuano “La scacchiera” – e la sua penultima considerazione in particolare – ci ha spinto a proporre alcune riflessioni come contributo al dibattito.

Il coronavirus viene da lontano, dalla Cina, ma sembra ben disponibile ad ambientarsi bene qui in Italia e nell’Europa tutta. Non è uno spettro, ma si aggira lo stesso un po’ dappertutto. Forse, in Italia, con i provvedimenti di “distanziamento” presi dal governo Conte, esso diminuirà la sua presa, come tutti speriamo. Ma è probabile che ne restino strascichi pesanti e persino che – con l’aiuto di una certa capacità di modificarsi in fretta, di evolvere in fretta un nuovo genoma – nel corso del prossimo inverno ne riemerga una variante altrettanto o più combattiva. Le grandi pestilenze del passato uccidevano molto di più, ma lasciavano una popolazione sopravvissuta immunizzata dal flagello. Renzo, guarito dalla peste, si aggira tranquillamente per Milano e sale sul carro dei monatti. Con il coronavirus, questa sicurezza dell’immunizzazione successiva è più debole: la memoria immunologica potrebbe essere sconfitta dalle variazioni genomiche dello stesso coronavirus, dunque potremmo riprendere periodicamente la stessa malattia o malattie similari, così come ogni anno riprendiamo l’influenza. Con la differenza che il coronavirus e i suoi eventuali discendenti sono più facilmente letali.

La domanda è dunque: e se durasse? Possiamo riorganizzare la nostra socialità in modo da reggere al coronavirus e ai suoi discendenti-mutanti?

Il coronavirus è la seconda grande mutazione sociale che investe la società globalizzata e la allontana dai modelli del XX secolo. La prima grande mutazione sociale è stata la diffusione del terrorismo jahidista dopo l’11 settembre 2001 e poi, con maggiore intensità, con la nascita dell’Isis. L’ondata terroristica certamente ha reso le nostre società più securitarie, più impaurite, più diffidenti. Ma non ha distanziato la gente, non ha diminuito l’abitudine a vedersi e a raggrupparsi. Anzi, abbiamo sentito come un segno di coraggio il continuare a frequentare piazze e locali notturni, nonostante il terrorismo. Con il coronavirus non si possono prendere le cose allo stesso modo. Si può liberamente rischiare di essere assassinati, ma non liberamente rischiare di essere assassini potenziali, anche se del tutto involontari. Dunque, poiché la distanziazione appare oggi come l’unica strategia gestibile, non possiamo ribellarci alla distanziazione. Ma come sarà una società di distanziati?

Innanzitutto, non sarà una società totalitaria, anche se tutta la retorica dello stato di emergenza certamente ispira brutti ricordi e si può capire che qualcuno – Giorgio Agamben, per fare nomi – abbia fatto confusioni. Ma, a nostro avviso, essa sarà piuttosto una società in cui diviene definitivamente prevalente la mediazione oggettuale di ogni rapporto inter-umano. Questa è una tendenza che i sociologi più intelligenti (ce ne sono, nel nostro caso è una donna, Karin Knorr Cetina) avevano già intravisto alla fine del XX secolo: “le società occidentali contemporanee costituiscono, per certi versi, un ambiente post-sociale, un ambiente nel quale gli oggetti sostituiscono gli esseri umani come partner relazionali e come ambiente di riferimento, o nel quale gli oggetti in modo crescente mediano le relazioni interumane, rendendole dipendenti dagli oggetti stessi”. Solo che, mentre all’epoca in cui scrive la Knorr Cetina (1997) questa era una tendenza spontanea, ora stare a casa e relazionarsi agli altri in modo indiretto e distanziato diviene un obbligo. Ciò vuol dire che un enorme numero di oggetti domineranno le nostre vite: alcuni nati per separarci dagli altri e bloccare la comunicazione fisica, quella diretta, cioè per renderci “senza finestre” come le monadi leibniziane, altri (quelli tecnologicamente più avanzati) per permetterci la comunicazione indiretta, che sarà quella che terrà in vita la società desocializzata. Nel primo caso, la mascherina o i guanti andranno affiancati, magari, dalle gabbie di vetro in cui dovremo rinchiuderci sul treno o sull’aereo, per non contagiarci a vicenda. Nel secondo caso, al pc e allo smartphone – di cui dovremo imparare nuovi usi – affiancheremo prima o poi anche la fotocopiatrice 3D per ricevere a casa gli oggetti. In pratica, dovremo abituarci per le fasi di crescita del contagio (e, come sappiamo, il ritorno alla vecchia “normalità” sarà lento) a una serie di norme che prevederanno:

1- L’imposizione di rigide normative per ogni contatto sociale allo scopo di: prenotare il proprio turno, entrare separatamente nei locali, non togliere guanti e mascherine fino all’arrivo al posto assegnato etc. Certamente, prima o poi, occorrerà riaprire scuole, università, biblioteche: ma saranno appunto luoghi accessibili solo in base alla rigida regolamentazione di ogni momento di contatto (domanda: e che ne sarà di quei luoghi che erano appunto pensati come spazio per l’incontro casuale, spontaneo, senza finalità ulteriori – la strada, il bar, la piazza in cui si incontrano i ragazzi solo per chiacchierare? Saranno per sempre vietati?)

2- Lo spostamento di quasi tutte le attività che possono farsi in rete sulla rete stessa: ciò significherà telelavoro, e occorreranno investimenti forti per generalizzarlo, nonché formazione a distanza ben fatta. Ciò significherà anche nuovi e pesanti compiti per chi lavora. Se la vostra casa dovrà diventare una postazione del vostro ufficio, sarete sottoposti a ritmi e a obblighi ancora maggiori. E anzi sarà vostro obbligo il tenere aggiornati e funzionanti i vostri oggetti: l’operaio viene multato quando rompe la macchina del padrone, ma voi sarete multati quando non avrete aggiornato a sufficienza il vostro pc di casa (nota per sindacalisti: chi paga per le macchine, per il loro aggiornamento, per la formazione ulteriore che serve per gestirle? Se mi si fa sapere che devo imparare a usare il programma XYZ perché il mio lavoro lo esige, i tempi per impararlo sono extra-lavorativi o lavorativi? Tempo di lavoro e tempo di vita entrano qui in una fase di pericolosa indistinzione).

È inutile insistere sugli svantaggi di questa situazione e sui pericoli che essa pone di un super-governo delle nostre vite. Questi pericoli sono già evidenti dalle domande che abbiamo posto in parentesi. Ma non limitiamoci solo agli svantaggi. Guardiamo anche ai vantaggi possibili. Ce ne sono? Sì. Eccoli:

1- La rivalutazione della prossimità. Se dobbiamo tutti vivere “distanziati”, muoversi poco diviene pagante rispetto al muoversi molto. Già adesso vediamo che la gente torna ai piccoli supermercati locali perché andare al megastore diviene complicato (bisogna spostarsi, il poliziotto accetterà la nostra giustificazione?) e rischiamo un’attesa lunga. In certa misura, se bisognerà spesso evitare le grandi aggregazioni, le piccole aggregazioni locali diverranno un male minore. Ciò vale anche per la produzione locale. Finora ci avevano detto che, avendo la tecnologia abolito le distanze, non era importante se il pc che usavamo o l’auto che usavamo viene prodotta in Italia o in Cina, e dunque gli operai italiani potevano andare a casa. Ora, con la distanziazione, c’è un’eccezione: proprio i materiali sanitari di prima necessità devono trovarsi vicini. Le mascherine sono scomparse perché sono tutte prodotte in Cina (e la Cina infatti ce le sta regalando proprio per impedire che facciamo mente locale su questo fatto). Alcuni medicinali non possono mancare. Avere alcune fabbriche sul territorio nazionale significa poter incrementare la produzione quando necessario, mentre se le fabbriche sono altrove non lo potete fare. La pianificazione delle emergenze può dunque anche reintrodurre elementi protezionistici che prima ci sembravano assurdi, perché la gestione delle fasi di desocializzazione attiva implica anche gestione del territorio e controllo sui flussi di merci che sono indispensabili alla tutela della salute collettiva.

2- La mediazione uomo-oggetto come frontiera del lavoro. Forse il coronavirus e i suoi discendenti o patogeni similari porteranno molte aziende a intensificare l’automatizzazione, che consente di diminuire la presenza di umani in fabbrica. Forse il coronavirus e i suoi discendenti uccideranno (definitivamente) alcuni tipi di negozi che vendono merci distribuibili a domicilio o trasmissibili a casa a chi abbia fotocopiatrici 3D. Ma questo vuol dire che diminuirà il lavoro e basta? No, abbiamo improvvisamente scoperto come i medici e gli infermieri siano troppo pochi, come molti servizi che andrebbero fatti a domicilio senza affollare gli ospedali non possono essere svolti perché non abbiamo personale adeguato. In pratica, il lavoro di produzione o di distribuzione delle merci tende a decrescere; ma il lavoro di erogazione di servizi può al contrario diventare sempre più strategico e importante. Questo lavoro avrà anzi ben due funzioni: reintegrare un po’ di socialità e di contatto, ma anche mediare i rapporti tra umani e macchine (e magari tra umani, macchine e ambiente naturale, nel caso di lavoratori nelle politiche del territorio). Puoi evitare che il malato vada in ospedale (o che il vecchietto solitario vada all’ospizio), ma non puoi farlo solo mettendogli a fianco qualche macchina che lo aiuti. Devi anche inviargli persone che lo aiutino ad usare quelle macchine e facciano inoltre quello che la macchina non sa fare. Questi lavori a due livelli – reintegrazione sociale e gestione delle relazioni umani-macchine – avranno bisogno di conoscenze impegnative. Stabilire quanta autonomia, capacità decisionale e forza contrattuale avranno questi lavoratori è un compito importante.

Non vi sono dunque solo aspetti negativi. Ma certamente quelli negativi sono forti e vorremmo sottolinearne soprattutto uno. Se per chi è anziano la desocializzazione non ha un peso psicologico forte, per chi è giovane è una lesione importante. È vero che i giovani oggi si aggregano anche attraverso le reti (e in modi non sempre sani, come mostrano i fenomeni di cyberbullismo), ma continuano a sentire il bisogno di vedersi fisicamente e di fare esperienza di una socialità diretta e senza ordinamento preventivo e in cui non ci sono barriere. Non vi ricordate già più delle “sardine”, che erano appunto coloro che gradivano ammassarsi in una stessa piazza? Il bisogno di vedersi non viene distrutto dal fatto che sempre più attività si possono fare senza vedersi. Quelli che avevano 20 anni negli anni ’60 costituivano la prima generazione che avesse a disposizione radio, televisione e giradischi, ovvero che poteva sentire musica e vedere spettacoli senza uscire di casa. Eppure quella generazione, pur facendo tutte queste cose, definì come punto cardinale del proprio stile di vita il concerto di massa (Woodstock, tanto per citarne uno) e il corteo di protesta di massa. L’aggregazione di massa ha un carattere compensativo rispetto alla già notevole presenza di oggetti nella nostra vita e costituisce anche un bisogno. Inibirla sarebbe non solo una perdita, sarebbe una forma di oppressione, quantomeno di oppressione generazionale. Come faremo a ricreare spazio per questi tipi di socializzazione? Se i virus che ci affliggeranno in futuro avranno tutti una decrescita con l’arrivo del caldo, la soluzione è semplice: avremo inverni da talpe e estati da cicale. Speriamo che sia almeno così.

Jorge insegna filosofia e educazione al pensiero critico; Sandra è docente di scienze naturali nella scuola secondaria

2 commenti su “E se durasse? Il coronavirus e la socialità “distanziata” del XXI secolo”

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