Il giorno degli sciacalli

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Chissà cosa direbbe Matteo Salvini (quello dei napoletani colerosi per cui ha anche subito una condanna penale) se adesso fossero i partenopei a dileggiare i padani portatori del virus che sta terrorizzando il mondo. Che ne dice del fatto che il contagio abbia il suo epicentro proprio nel “suo” Lombardo-Veneto? A ben riflettere questo esiziale microrganismo Covid-19, in un mondo dominato dai più vari regimi, è l’esempio supremo della democrazia. Come ben dice Michele Serra (la Repubblica del 23 febbraio), “Pare [che il virus] non ne faccia una questione di classe, di razza, di religione e che salga a bordo dell’essere umano in quanto tale”.

Con ciò non si vuole in alcun modo sminuire la giustificata preoccupazione di chi teme il contagio. Anche perché i termini “epidemia”, “pandemia”, “contagio” sembravano ormai relegati a un tempo passato, o a film di successo come Cassandra Crossing o Virus letale, o tipici delle sette religiose che, ormai da 2000 anni, annunciano l’esplosione di epidemie mondiali a conferma del fatto che viviamo negli “ultimi giorni” precedenti la “fine del mondo”. Ecco perché gli unici che, per così dire, trovano emozionante l’attuale crisi epidemiologica sono quelli che in essa vedono non il normale avvicendarsi sulla scena umana di eventi che fanno parte della storia, ma “atti di Dio” che preludono all’ “Armaghedon mondiale”.

Ciò a cui stiamo assistendo oggi, e di cui non sappiamo né possiamo prevedere l’evoluzione, è, comunque, se paragonato alle epidemie del passato, un lieve incidente di percorso. Basti pensare all’influenza spagnola che fra il 1918 e il 1919 colpì e uccise tra i 15 e i 25 milioni di persone. Per chi volesse andare più indietro nel tempo ricordiamo la morte nera, che solo in Europa, nella quale fu debellata nel 1720, richiese un contributo di vite umane da 25 a 40 milioni di persone. Ma, indimenticabile, alla fine del 1347 è la peste, che secondo alcuni storici mieté 67-70 milioni di vittime, i tre quarti della popolazione europea di allora. Fu sempre questa piaga che nel 1200 portò la popolazione della Cina di allora da 123 milioni di abitanti a 65 milioni!

Eppure, nonostante la gravità di questi numeri, è doveroso ricordare che al tempo della spagnola furono contagiate 525 milioni di persone, di cui 15-20 milioni morirono e 500 milioni guarirono, con una mortalità media del 4%. Oggi, quella del coronavirus pare assestata sul 2-3%. Nonostante, quindi, che una recentissima circolare dei Testimoni di Geova (20 febbraio 2020) esordisca dicendo che “Gesù profetizzò che gli ultimi giorni sarebbero stati caratterizzati da un aumento di calamità naturali, tra cui le epidemie (Luca 21:11)”, ciò a cui stiamo assistendo non presenta niente d’eccezionale, se solo sfogliamo a ritroso la storia umana degli ultimi mille anni. La realtà è tutt’altra, e cioè che mai nel corso della storia umana si è assistito a un calo così vistoso – a volte persino alla scomparsa – delle piaghe che per secoli hanno afflitto il genere umano. Se volessimo sprecare del tempo rispondendo ai moderni profeti di sventura, li potremmo rassicurare del fatto che le cosiddette “profezie bibliche” sulla fine del mondo a causa di epidemie stanno tutte battendo in ritirata, smentendo clamorosamente le loro lugubri predizioni, che essi mettono in bocca, fuori contesto, al falegname di Nazaret. Ciò che, invece, non batte in ritirata e di cui le sette non parlano, perché la Bibbia non ne era al corrente, sono i milioni di morti che senza clamore, quotidianamente, cadono vittima di mali che respirano con l’aria di ogni giorno: parliamo delle altissime percentuali di malattie polmonari di centinaia di siti in Italia, dove a vivere si preferisce morire pur di lavorare. Fanno molti più morti della Sars o del Covid-19, ma passano in sordina nei notiziari e, cosa tragica, continueranno spietatamente a colpire dopo che quest’epidemia sarà passata. Dove sta la coerenza in tutto questo? Ancora una volta siamo costretti a chiederci se “intelligenza” vuol dire davvero “Intelligenza”.

Ciò che, inevitabilmente, accompagna le epidemie è il suo compagno di sempre: il panico, che agisce sulla nostra componente emotiva e irrazionale e che, spesso, crea più problemi della malattia stessa. Al tempo della peste di manzoniana memoria, non conoscendo ancora l’esistenza di virus e batteri, si trovò un capro espiatorio nella figura dell’untore, a causa della quale molti innocenti malcapitati fecero un’orrenda fine. Oggi non abbiamo più quest’alibi, dissipato dalle conoscenze mediche, ma ciò che persiste, inestirpabile, perché fa parte della natura umana, è la conseguenza del panico che, per definizione, è “una reazione individuale o collettiva, che invade improvvisamente difronte a un pericolo reale o immaginario, togliendo la capacità di riflessione e spingendo alla fuga o ad atti inconsulti”. Il panico ha l’effetto di far regredire in un solo istante secoli di civilizzazione. La vernice superficiale, che riveste la società moderna e “civile”, scompare in un istante ed emerge, prepotente, il comportamento ferino. Quante volte abbiamo visto lotte cruente di animali intorno a una pozza d’acqua, o il feroce accanimento per spartirsi i resti di una preda? In un attimo, in un batter d’occhio prende il sopravvento quello che è l’istinto primordiale di ogni essere vivente: la propria sopravvivenza. Non per nulla un grande presidente americano, nel 1933, disse che “L’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa”. Il cristianesimo ci ha insegnato a condividere il pane con il povero, o il mantello con l’ignudo, a ospitare il sofferente. Il panico ci induce a fare l’esatto contrario: a privare il povero del suo pezzo di pane e a togliergli anche il mezzo mantello oltre a sbattergli in faccia la porta della nostra ospitalità. La paura azzera la civiltà, la compassione, l’umanità.

Eppure, una riflessione va fatta. Nel caso di catastrofi naturali come un terremoto, accade spesso tutto il contrario. Il panico, la paura non azzerano l’umanità, la solidarietà; anzi, le esaltano. Quante volte abbiamo visto persone scavare a mani nude fra le macerie pericolanti, incuranti della propria sicurezza, per cercare di salvare una vita! Eppure, il rischio di rimanere travolti e uccisi è forse superiore a quello rappresentato da un microorganismo invisibile. Qual è la differenza, allora? Probabilmente qualcuno potrebbe spiegarci che abbiamo più paura di ciò che non vediamo che di ciò che vediamo. Un masso pericolante è lì, sotto i nostri occhi, un virus c’è ma non lo vediamo, non sappiamo quando e come può colpire. Per così dire, una parete pericolante è “onesta”, ci avverte che può caderci addosso, un virus o un batterio sono subdoli, invisibili.

Le epidemie, come i terremoti e le grandi catastrofi naturali, mettono a nudo la natura umana; fanno emergere il meglio o il peggio di noi stessi. A fronte degli atti d’altruismo si oppongono quelli di sciacallaggio, di chi specula sulle disgrazie, aumentando i prezzi dei farmaci o dei generi di prima necessità. E c’è, poi, immancabile, lo sciacallaggio politico di chi cerca anche in circostanze del genere, di lucrare dividendi elettorali. Dobbiamo riconoscere di essere profondamente afflitti per il fatto che il coronavirus abbia vigliaccamente sottratto a uno dei nostri politici più in vista uno dei suoi principali mezzi di sussistenza: come farà Matteo Salvini a sopravvivere senza i suoi bagni di folla? Senza che nessuno gli chieda più di fare un “selfie” con lui, senza le sue pantagrueliche abbuffate mediatiche, circondato da gaudenti come lui, ora scomparsi come nebbia al sole? E ora che “l’invasione” viene dal nord e non più dal sud, chi saranno i suoi capri espiatori? A che gli servirà, adesso, l’arresto in mare dei barconi provenienti dal sud diseredato del mondo, quando i moderni “untori” arrivano in treni superveloci, sui Suv, sugli aerei e hanno quasi tutti la pelle bianchissima e parlano veneto o lombardo? Se a uno sciacallo togli le sue prede non gli resta che morire d’inedia. Se non ci sono morti, non ci sono becchini. Se non ci sono cadaveri, non ci sono avvoltoi. Noi, come tutti, naturalmente, ci auguriamo che quest’emergenza passi al più presto per ritornare alla normalità. Con una lezione: è nei momenti difficili che emerge il valore di un uomo. E sta a noi, a tutti noi, decidere a chi affidare le nostre speranze di farcela: a chi deve la sua fortuna alle disgrazie altrui, o a chi, senza clamore, diuturnamente, lavora – anche sbagliando – per affrontare con serietà i problemi che quotidianamente si pongono? Solo noi, individualmente, possiamo rispondere a questa domanda.

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